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37
Per mezzo il bosco appar sol una strada: credono i cavallier che la donzella
inanzi a lor per quella se ne vada; che non se ne può andar, se non per quella. Orlando corre, e Ferraù non bada,
né Sacripante men sprona e puntella. Angelica la briglia più ritiene,
e dietro lor con minor fretta viene.

38
Giunti che fur, correndo, ove i sentieri a perder si venian ne la foresta,
e cominciar per l’erba i cavallieri a riguardar se vi trovavan pesta;
Ferraù, che potea fra quanti altieri mai fosser, gir con la corona in testa,
si volse con mal viso agli altri dui, e gridò lor: – Dove venite vui?

39
Tornate a dietro, o pigliate altra via, se non volete rimaner qui morti:
né in amar né in seguir la donna mia si creda alcun, che compagnia comporti. – Disse Orlando al Circasso: – Che potria
più dir costui, s’ambi ci avesse scorti per le più vili e timide puttane
che da conocchie mai traesser lane?

40
Poi volto a Ferraù, disse: – Uom bestiale, s’io non guardassi che senza elmo sei,
di quel c’hai detto, s’hai ben detto o male, senz’altra indugia accorger ti farei. –
Disse il Spagnuol: – Di quel ch’a me non cale, perché pigliarne tu cura ti dei?
Io sol contra ambidui per far son buono quel che detto ho, senza elmo come sono. –

41
– Deh (disse Orlando al re di Circassia), in mio servigio a costui l’elmo presta,
tanto ch’io gli abbia tratta la pazzia; ch’altra non vidi mai simile a questa. – Rispose il re: – Chi più pazzo saria?
Ma se ti par pur la domanda onesta, prestagli il tuo; ch’io non sarò men atto, che tu sia forse, a castigare un matto. –

42
Soggiunse Ferraù: – Sciocchi voi, quasi che, se mi fosse il portar elmo a grado, voi senza non ne fosse già rimasi;
che tolti i vostri avrei, vostro mal grado. Ma per narrarvi in parte li miei casi,
per voto così senza me ne vado,
ed anderò, fin ch’io non ho quel fino che porta in capo Orlando paladino. –

43
– Dunque (rispose sorridente il conte) ti pensi a capo nudo esser bastante
far ad Orlando quel che in Aspramonte egli già fece al figlio d’Agolante?
Anzi credo io, se tel vedessi a fronte, ne tremeresti dal capo alle piante;
non che volessi l’elmo, ma daresti
l’altre arme a lui di patto, che tu vesti. –

44
Il vantator Spagnuol disse: – Già molte fiate e molte ho così Orlando astretto,
che facilmente l’arme gli avrei tolte, quante indosso n’avea, non che l’elmetto; e s’io nol feci, occorrono alle volte
pensier che prima non s’aveano in petto: non n’ebbi, già fu, voglia; or l’aggio, e spero che mi potrà succeder di leggiero. –

45
Non potè aver più pazienza Orlando
e gridò: – Mentitor, brutto marrano, in che paese ti trovasti, e quando,
a poter più di me con l’arme in mano? Quel paladin, di che ti vai vantando,
son io, che ti pensavi esser lontano. Or vedi se tu puoi l’elmo levarme,
o s’io son buon per torre a te l’altre arme.

46
Né da te voglio un minimo vantaggio. – Così dicendo, l’elmo si disciolse,
e lo suspese a un ramuscel di faggio; e quasi a un tempo Durindana tolse.
Ferraù non perdè di ciò il coraggio: trasse la spada, e in atto si raccolse,
onde con essa e col levato scudo
potesse ricoprirsi il capo nudo.

47
Così li duo guerrieri incominciaro, lor cavalli aggirando, a volteggiarsi;
e dove l’arme si giungeano, e raro
era più il ferro, col ferro a tentarsi. Non era in tutto ‘l mondo un altro paro
che più di questo avessi ad accoppiarsi: pari eran di vigor, pari d’ardire;
né l’un né l’altro si potea ferire.

48
Ch’abbiate, Signor mio, già inteso estimo, che Ferraù per tutto era fatato,
fuor che là dove l’alimento primo
piglia il bambin nel ventre ancor serrato: e fin che del sepolcro il tetro limo
la faccia gli coperse, il luogo armato usò portar, dove era il dubbio, sempre
di sette piastre fatte a buone tempre.

49
Era ugualmente il principe d’Anglante tutto fatato, fuor che in una parte:
ferito esser potea sotto le piante; ma le guardò con ogni studio ed arte.
Duro era il resto lor più che diamante (se la fama dal ver non si diparte);
e l’uno e l’altro andò, più per ornato che per bisogno, alle sue imprese armato.

50
S’incrudelisce e inaspra la battaglia, d’orrore in vista e di spavento piena.
Ferraù, quando punge e quando taglia, né mena botta che non vada piena:
ogni colpo d’Orlando o piastra o maglia e schioda e rompe ed apre e a straccio mena. Angelica invisibile lor pon mente,
sola a tanto spettacolo presente.

51
Intanto il re di Circassia, stimando che poco inanzi Angelica corresse,
poi ch’attaccati Ferraù ed Orlando
vide restar, per quella via si messe, che si credea che la donzella, quando
da lor disparve, seguitata avesse:
sì che a quella battaglia la figliuola di Galafron fu testimonia sola.

52
Poi che, orribil come era e spaventosa, l’ebbe da parte ella mirata alquanto,
e che le parve assai pericolosa
così da l’un come da l’altro canto; di veder novità voluntarosa,
disegnò l’elmo tor, per mirar quanto fariano i duo guerrier, vistosel tolto;
ben con pensier di non tenerlo molto.

53
Ha ben di darlo al conte intenzione; na se ne vuole in prima pigliar gioco.
L’elmo dispicca, e in grembio se lo pone, e sta a mirare i cavallieri un poco.
Di poi si parte, e non fa lor sermone; e lontana era un pezzo da quel loco,
prima ch’alcun di lor v’avesse mente: sì l’uno e l’altro era ne l’ira ardente.

54
Ma Ferraù, che prima v’ebbe gli occhi, si dispiccò da Orlando, e disse a lui:
– Deh come n’ha da male accorti e sciocchi trattati il cavallier ch’era con nui!
Che premio fia ch’al vincitor più tocchi, se ‘l bel elmo involato n’ha costui? –
Ritrassi Orlando, e gli occhi al ramo gira: non vede l’elmo, e tutto avampa d’ira.

55
E nel parer di Ferraù concorse,
che ‘l cavallier che dianzi era con loro se lo portasse; onde la briglia torse,
e fe’ sentir gli sproni a Brigliadoro. Ferraù che del campo il vide torse,
gli venne dietro; e poi che giunti foro dove ne l’erba appar l’orma novella
ch’avea fatto il Circasso e la donzella,

56
prese la strada alla sinistra il conte verso una valle, ove il Circasso era ito: si tenne Ferraù più presso al monte,
dove il sentiero Angelica avea trito. Angelica in quel mezzo ad una fonte
giunta era, ombrosa e di giocondo sito, ch’ognun che passa, alle fresche ombre invita, né, senza ber, mai lascia far partita.

57
Angelica si ferma alle chiare onde, non pensando ch’alcun le sopravegna;
e per lo sacro annel che la nasconde, non può temer che caso rio le avegna.
A prima giunta in su l’erbose sponde del rivo l’elmo a un ramuscel consegna;
poi cerca, ove nel bosco è miglior frasca, la iumenta legar, perché si pasca.

58
Il cavallier di Spagna, che venuto
era per l’orme, alla fontana giunge. Non l’ha sì tosto Angelica veduto,
che gli dispare, e la cavalla punge. L’elmo, che sopra l’erba era caduto,
ritor non può, che troppo resta lunge. Come il pagan d’Angelica s’accorse,
tosto vêr lei pien di letizia corse.

59
Gli sparve, come io dico, ella davante, come fantasma al dipartir del sonno.
Cercando egli la va per quelle piante né i miseri occhi più veder la ponno.
Bestemiando Macone e Trivigante,
e di sua legge ogni maestro e donno, ritornò Ferraù verso la fonte,
u’ ne l’erba giacea l’elmo del conte.

60
Lo riconobbe, tosto che mirollo,
per lettere ch’avea scritte ne l’orlo; che dicean dove Orlando guadagnollo,
e come e quando, ed a chi fe’ deporlo. Armossene il pagano il capo e il collo,
che non lasciò, pel duol ch’avea, di torlo; pel duol ch’avea di quella che gli sparve, come sparir soglion notturne larve.

61
Poi ch’allacciato s’ha il buon elmo in testa, aviso gli è, che a contentarsi a pieno,
sol ritrovare Angelica gli resta,
che gli appar e dispar come baleno. Per lei tutta cercò l’alta foresta:
e poi ch’ogni speranza venne meno
di più poterne ritrovar vestigi,
tornò al campo spagnuol verso Parigi;

62
temperando il dolor che gli ardea il petto, di non aver sì gran disir sfogato,
col refrigerio di portar l’elmetto
che fu d’Orlando, come avea giurato. Dal conte, poi che ‘l certo gli fu detto, fu lungamente Ferraù cercato;
né fin quel dì dal capo gli lo sciolse, che fra duo ponti la vita gli tolse.

63
Angelica invisibile e soletta
via se ne va, ma con turbata fronte; che de l’elmo le duol, che troppa fretta le avea fatto lasciar presso alla fonte. – Per voler far quel ch’a me far non spetta (tra sé dicea), levato ho l’elmo al conte: questo, pel primo merito, è assai buono
di quanto a lui pur ubligata sono.

64
Con buona intenzione (e sallo Idio), ben che diverso e tristo effetto segua,
io levai l’elmo: e solo il pensier mio fu di ridur quella battaglia a triegua;
e non che per mio mezzo il suo disio questo brutto Spagnuol oggi consegua. –
Così di sé s’andava lamentando
d’aver de l’elmo suo privato Orlando.

65
Sdegnata e malcontenta la via prese, che le parea miglior, verso Oriente.
Più volte ascosa andò, talor palese, secondo era oportuno, infra la gente.
Dopo molto veder molto paese,
giunse in un bosco, dove iniquamente fra duo compagni morti un giovinetto
trovò, ch’era ferito in mezzo il petto.

66
Ma non dirò d’Angelica or più inante; che molte cose ho da narrarvi prima:
né sono a Ferraù né a Sacripante,
sin a gran pezzo per donar più rima. Da lor mi leva il principe d’Anglante,
che di sé vuol che inanzi agli altri esprima le fatiche e gli affanni che sostenne
nel gran disio, di che a fin mai non venne.

67
Alla prima città ch’egli ritruova
(perché d’andare occulto avea gran cura) si pone in capo una barbuta nuova,
senza mirar s’ha debil tempra o dura: sia qual si vuol, poco gli nuoce o giova; sì ne la fatagion si rassicura.
Così coperto seguita l’inchiesta;
né notte, o giorno, o pioggia, o sol l’arresta.

68
Era ne l’ora, che trae i cavalli
Febo del mar con rugiadoso pelo,
e l’Aurora di fior vermigli e gialli venìa spargendo d’ogn’intorno il cielo;
e lasciato le stelle aveano i balli, e per partirsi postosi già il velo:
quando appresso a Parigi un dì passando, mostrò di sua virtù gran segno Orlando.

69
In dua squadre incontrossi: e Manilardo ne reggea l’una, il Saracin canuto,
re di Norizia, già fiero e gagliardo, or miglior di consiglio che d’aiuto;
guidava l’altra sotto il suo stendardo il re di Tremisen, ch’era tenuto
tra gli Africani cavallier perfetto: Alzirdo fu, da chi ‘l conobbe, detto.

70
Questi con l’altro esercito pagano
quella invernata avean fatto soggiorno, chi presso alla città, chi più lontano,
tutti alle ville o alle castella intorno: ch’avendo speso il re Agramante invano,
per espugnar Parigi, più d’un giorno, volse tentar l’assedio finalmente,
poi che pigliar non lo potea altrimente.

71
E per far questo avea gente infinita; che oltre a quella che con lui giunt’era, e quella che di Spagna avea seguita
del re Marsilio la real bandiera
molta di Francia n’avea al soldo unita; che da Parigi insino alla riviera
d’Arli, con parte di Guascogna (eccetto alcune rocche) avea tutto suggetto.

72
Or cominciando i trepidi ruscelli
a sciorre il freddo giaccio in tiepide onde, e i prati di nuove erbe, e gli arbuscelli a rivestirsi di tenera fronde;
ragunò il re Agramante tutti quelli che seguian le fortune sue seconde,
per farsi rassegnar l’armata torma; indi alle cose sue dar miglior forma.

73
A questo effetto il re di Tremisenne con quel de la Norizia ne venìa,
per là giungere a tempo, ove si tenne poi conto d’ogni squadra o buona o ria.
Orlando a caso ad incontrar si venne (come io v’ho detto) in questa compagnia, cercando pur colei, come egli era uso,
che nel carcer d’Amor lo tenea chiuso.

74
Come Alzirdo appressar vide quel conte che di valor non avea pari al mondo,
in tal sembiante, in sì superba fronte, che ‘l dio de l’arme a lui parea secondo; restò stupito alle fattezze conte,
al fiero sguardo, al viso furibondo: e lo stimò guerrier d’alta prodezza;
ma ebbe del provar troppa vaghezza.

75
Era giovane Alzirdo, ed arrogante
per molta forza, e per gran cor pregiato. Per giostrar spinse il suo cavallo inante: meglio per lui, se fosse in schiera stato; che ne lo scontro il principe d’Anglante lo fe’ cader per mezzo il cor passato.
Giva in fuga il destrier di timor pieno, che su non v’era chi reggesse il freno.

76
Levasi un grido subito ed orrendo,
che d’ogn’intorno n’ha l’aria ripiena, come si vede il giovene, cadendo,
spicciar il sangue di sì larga vena. La turba verso il conte vien fremendo
disordinata, e tagli e punte mena;
ma quella è più, che con pennuti dardi tempesta il fior dei cavallier gagliardi.

77
Con qual rumor la setolosa frotta
correr da monti suole o da campagne, se ‘l lupo uscito di nascosa grotta,
o l’orso sceso alle minor montagne, un tener porco preso abbia talotta,
che con grugnito e gran stridor si lagne; con tal lo stuol barbarico era mosso
verso il conte, gridando: – Addosso, addosso! –

78
Lance, saette e spade ebbe l’usbergo a un tempo mille, e lo scudo altretante: chi gli percuote con la mazza il tergo,
chi minaccia da lato, e chi davante. Ma quel, ch’al timor mai non diede albergo, estima la vil turba e l’arme tante,
quel che dentro alla mandra, all’aer cupo, il numer de l’agnelle estimi il lupo.

79
Nuda avea in man quella fulminea spada che posti ha tanti Saracini a morte:
dunque chi vuol di quanta turba cada tenere il conto, ha impresa dura e forte. Rossa di sangue già correa la strada,
capace a pena a tante genti morte;
perché né targa né capel difende
la fatal Durindana, ove discende,

80
né vesta piena di cotone, o tele
che circondino il capo in mille vòlti. Non pur per l’aria gemiti e querele,
ma volan braccia e spalle e capi sciolti. Pel campo errando va Morte crudele
in molti, vari, e tutti orribil volti; e tra sé dice: – In man d’Orlando valci
Durindana per cento de mie falci. –

81
Una percossa a pena l’altra aspetta. Ben tosto cominciar tutti a fuggire;
e quando prima ne veniano in fretta (perch’era sol, credeanselo inghiottire), non è chi per levarsi de la stretta
l’amico aspetti, e cerchi insieme gire: chi fugge a piedi in qua, chi colà sprona; nessun domanda se la strada è buona.

82
Virtude andava intorno con lo speglio che fa veder ne l’anima ogni ruga:
nessun vi si mirò, se non un veglio a cui il sangue l’età, non l’ardir, sciuga. Vide costui quanto il morir sia meglio,
che con suo disonor mettersi in fuga: dico il re di Norizia; onde la lancia
arrestò contra il paladin di Francia.

83
E la roppe alla penna de lo scudo
del fiero conte, che nulla si mosse. Egli ch’avea alla posta il brando nudo,
re Manilardo al trapassar percosse. Fortuna l’aiutò; che ‘l ferro crudo
in man d’Orlando al venir giù voltosse: tirare i colpi a filo ognor non lece;
ma pur di sella stramazzar lo fece.

84
Stordito de l’arcion quel re stramazza: non si rivolge Orlando a rivederlo;
che gli altri taglia, tronca, fende, amazza; a tutti pare in su le spalle averlo.
Come per l’aria, ove han sì larga piazza, fuggon li storni da l’audace smerlo,
così di quella squadra ormai disfatta altri cade, altri fugge, altri s’appiatta.

85
Non cessò pria la sanguinosa spada, che fu di viva gente il campo voto.
Orlando è in dubbio a ripigliar la strada, ben che gli sia tutto il paese noto.
O da man destra o da sinistra vada, il pensier da l’andar sempre è remoto:
d’Angelica cercar, fuor ch’ove sia, teme, e di far sempre contraria via.

86
Il suo camin (di lei chiedendo spesso) or per li campi or per le selve tenne:
e sì come era uscito di se stesso,
uscì di strada; e a piè d’un monte venne, dove la notte fuor d’un sasso fesso
lontan vide un splendor batter le penne. Orlando al sasso per veder s’accosta,
se quivi fosse Angelica reposta.

87
Come nel bosco de l’umil ginepre,
o ne la stoppia alla campagna aperta, quando si cerca la paurosa lepre
per traversati solchi e per via incerta, si va ad ogni cespuglio, ad ogni vepre,
se per ventura vi fosse coperta;
così cercava Orlando con gran pena
la donna sua, dove speranza il mena.

88
Verso quel raggio andando in fretta il conte, giunse ove ne la selva si diffonde
da l’angusto spiraglio di quel monte, ch’una capace grotta in sé nasconde;
e trova inanzi ne la prima fronte
spine e virgulti, come mura e sponde, per celar quei che ne la grotta stanno,
da chi far lor cercasse oltraggio e danno.

89
Di giorno ritrovata non sarebbe,
ma la facea di notte il lume aperta. Orlando pensa ben quel ch’esser debbe;
pur vuol saper la cosa anco più certa. Poi che legato fuor Brigliadoro ebbe,
tacito viene alla grotta coperta:
e fra li spessi rami ne la buca
entra, senza chiamar chi l’introduca.

90
Scende la tomba molti gradi al basso, dove la viva gente sta sepolta.
Era non poco spazioso il sasso
tagliato a punte di scarpelli in volta; né di luce diurna in tutto casso,
ben che l’entrata non ne dava molta; ma ve ne venìa assai da una finestra
che sporgea in un pertugio da man destra.

91
In mezzo la spelonca, appresso a un fuoco, era una donna di giocondo viso;
quindici anni passar dovea di poco, quanto fu al conte, al primo sguardo, aviso: ed era bella sì, che facea il loco
salvatico parere un paradiso;
ben ch’avea gli occhi di lacrime pregni, del cor dolente manifesti segni.

92
V’era una vecchia; e facean gran contese (come uso feminil spesso esser suole),
ma come il conte ne la grotta scese, finiron le dispùte e le parole.
Orlando a salutarle fu cortese
(come con donne sempre esser si vuole), ed elle si levaro immantinente,
e lui risalutar benignamente.

93
Gli è ver che si smarriro in faccia alquanto, come improviso udiron quella voce,
e insieme entrare armato tutto quanto vider là dentro un uom tanto feroce.
Orlando domandò qual fosse tanto
scortese, ingiusto, barbaro ed atroce, che ne la grotta tenesse sepolto
un sì gentile ed amoroso volto.

94
La vergine a fatica gli rispose,
interrotta da fervidi signiozzi,
che dai coralli e da le preziose
perle uscir fanno i dolci accenti mozzi. Le lacrime scendean tra gigli e rose,
là dove avien ch’alcuna se n’inghiozzi. Piacciavi udir ne l’altro canto il resto, Signor, che tempo è ormai di finir questo.

CANTO TREDICESIMO

1
Ben furo aventurosi i cavallieri
ch’erano a quella età, che nei valloni, ne le scure spelonche e boschi fieri,
tane di serpi, d’orsi e di leoni,
trovavan quel che nei palazzi altieri a pena or trovar puon giudici buoni:
donne, che ne la lor più fresca etade sien degne d’aver titol di beltade.

2
Di sopra vi narrai che ne la grotta avea trovato Orlando una donzella,
e che la dimandò ch’ivi condotta
l’avesse: or seguitando, dico ch’ella, poi che più d’un signiozzo l’ha interrotta, con dolce e suavissima favella
al conte fa le sue sciagure note,
con quella brevità che meglio puote.

3
– Ben che io sia certa (dice), o cavalliero, ch’io porterò del mio parlar supplizio,
perché a colui che qui m’ha chiusa, spero che costei ne darà subito indizio;
pur son disposta non celarti il vero, e vada la mia vita in precipizio.
E ch’aspettar poss’io da lui più gioia, che ‘l si disponga un dì voler ch’io muoia?

4
Isabella sono io, che figlia fui
del re mal fortunato di Gallizia.
Ben dissi fui; ch’or non son più di lui, ma di dolor, d’affanno e di mestizia.
Colpa d’Amor; ch’io non saprei di cui dolermi più che de la sua nequizia,
che dolcemente nei principi applaude, e tesse di nascosto inganno e fraude.

5
Già mi vivea di mia sorte felice,
gentil, giovane, ricca, onesta e bella: vile e povera or sono, or infelice;
e s’altra è peggior sorte, io sono in quella. Ma voglio sappi la prima radice
che produsse quel mal che mi flagella; e ben ch’aiuto poi da te non esca,
poco non mi parrà, che te n’incresca.

6
Mio patre fe’ in Baiona alcune giostre, esser denno oggimai dodici mesi.
Trasse la fama ne le terre nostre
cavallieri a giostrar di più paesi. Fra gli altri (o sia ch’Amor così mi mostre, o che virtù pur se stessa palesi)
mi parve da lodar Zerbino solo,
che del gran re di Scozia era figliuolo.

7
Il qual poi che far pruove in campo vidi miracolose di cavalleria,
fui presa del suo amore; e non m’avidi, ch’io mi conobbi più non esser mia.
E pur, ben che ‘l suo amor così mi guidi, mi giova sempre avere in fantasia
ch’io non misi il mio core in luogo immondo, ma nel più degno e bel ch’oggi sia al mondo.

8
Zerbino di bellezza e di valore
sopra tutti i signori era eminente. Mostrammi, e credo mi portasse amore,
e che di me non fosse meno ardente. Non ci mancò chi del commune ardore
interprete fra noi fosse sovente,
poi che di vista ancor fummo disgiunti; che gli animi restar sempre congiunti.

9
Però che dato fine alla gran festa, Il mio Zerbino in Scozia fe’ ritorno.
Se sai che cosa è amor, ben sai che mesta restai, di lui pensando notte e giorno;
ed era certa che non men molesta
fiamma intorno al suo cor facea soggiorno. Egli non fece al suo disio più schermi,
se non che cercò via di seco avermi.

10
E perché vieta la diversa fede
(essendo egli cristiano, io saracina) ch’al mio padre per moglie non mi chiede, per furto indi levarmi si destina.
Fuor de la ricca mia patria, che siede tra verdi campi allato alla marina,
aveva un bel giardin sopra una riva, che colli intorno e tutto il mar scopriva.

11
Gli parve il luogo a fornir ciò disposto, che la diversa religion ci vieta;
e mi fa saper l’ordine che posto
avea di far la nostra vita lieta.
Appresso a Santa Marta avea nascosto con gente armata una galea secreta,
in guardia d’Odorico di Biscaglia,
in mare e in terra mastro di battaglia.

12
Né potendo in persona far l’effetto, perch’egli allora era dal padre antico
a dar soccorso al re di Framcia astretto, manderia in vece sua questo Odorico,
che fra tutti i fedeli amici eletto s’avea pel più fedele e pel più amico:
e bene esser dovea, se i benefici
sempre hanno forza d’acquistar gli amici.

13
Verria costui sopra un navilio armato, al terminato tempo indi a levarmi.
E così venne il giorno disiato,
che dentro il mio giardin lasciai trovarmi. Odorico la notte, accompagnato
di gente valorosa all’acqua e all’armi, smontò ad un fiume alla città vicino,
e venne chetamente al mio giardino.

14
Quindi fui tratta alla galea spalmata, prima che la città n’avesse avisi.
De la famiglia ignuda e disarmata
altri fuggiro, altri restaro uccisi, parte captiva meco fu menata.
Così da la mia terra io mi divisi,
con quanto gaudio non ti potrei dire, sperando in breve il mio Zerbin fruire.

15
Voltati sopra Mongia eramo a pena,
quando ci assalse alla sinistra sponda un vento che turbò l’aria serena,
e turbò il mare, e al ciel gli levò l’onda. Salta un maestro ch’a traverso mena,
e cresce ad ora ad ora, e soprabonda; e cresce e soprabonda con tal forza,
che val poco alternar poggia con orza.

16
Non giova calar vele, e l’arbor sopra corsia legar, né ruinar castella;
che ci veggian mal grado portar sopra acuti scogli, appresso alla Rocella.
Se non ci aiuta quel che sta di sopra, ci spinge in terra la crudel procella.
Il vento rio ne caccia in maggior fretta, che d’arco mai non si aventò saetta.

17
Vide il periglio il Biscaglino, e a quello usò un rimedio che fallir suol spesso:
ebbe ricorso subito al battello;
calossi, e me calar fece con esso.
Sceser dui altri, e ne scendea un drappello, se i primi scesi l’avesser concesso;
ma con le spade li tenner discosto, tagliar la fune, e ci allargammo tosto.

18
Fummo gittati a salvamento al lito
noi che nel palischermo eramo scesi; periron gli altri col legno sdrucito;
in preda al mare andar tutti gli arnesi. All’eterna Bontade, all’infinito
Amor, rendendo grazie, le man stesi, che non m’avessi dal furor marino
lasciato tor di riveder Zerbino.

19
Come ch’io avessi sopra il legno e vesti lasciato e gioie e l’altre cose care,
pur che la speme di Zerbin mi resti, contenta son che s’abbi il resto il mare. Non sono, ove scendemo, i liti pesti
d’alcun sentier, né intorno albergo appare; ma solo il monte, al qual mai sempre fiede l’ombroso capo il vento, e ‘l mare il piede.

20
Quivi il crudo tiranno Amor, che sempre d’ogni promessa sua fu disleale,
e sempre guarda come involva e stempre ogni nostro disegno razionale,
mutò con triste e disoneste tempre
mio conforto in dolor, mio bene in male; che quell’amico, in chi Zerbin si crede, di desire arse, ed agghiacciò di fede.

21
O che m’avesse in mar bramata ancora, né fosse stato a dimostrarlo ardito,
o cominciassi il desiderio allora
che l’agio v’ebbe dal solingo lito; disegnò quivi senza più dimora
condurre a fin l’ingordo suo appetito; ma prima da sé torre un de li dui
che nel battel campati eran con nui.

22
Quell’era omo di Scozia, Almonio detto, che mostrava a Zerbin portar gran fede;
e commendato per guerrier perfetto
da lui fu, quando ad Odorico il diede. Disse a costui, che biasmo era e difetto, se mi traeano alla Rocella a piede;
e lo pregò ch’inanti volesse ire
a farmi incontra alcun ronzin venire.

23
Almonio, che di ciò nulla temea,
immantinente inanzi il camin piglia alla città che ‘l bosco ci ascondea,
e non era lontana oltra sei miglia. Odorico scoprir sua voglia rea
all’altro finalmente si consiglia;
sì perché tor non se lo sa d’appresso, sì perché avea gran confidenza in esso.

24
Era Corebo di Bilbao nomato
quel di ch’io parlo, che con noi rimase; che da fanciullo picciolo allevato
s’era con lui ne le medesme case.
Poter con lui communicar l’ingrato
pensiero il traditor si persuase,
sperando ch’ad amar saria più presto il piacer de l’amico, che l’onesto.

25
Corebo, che gentile era e cortese,
non lo potè ascoltar senza gran sdegno: lo chiamò traditore, e gli contese
con parole e con fatti il rio disegno. Grande ira all’uno e all’altro il core accese, e con le spade nude ne fer segno.
Al trar de’ ferri, io fui da la paura volta a fuggir per l’alta selva oscura.

26
Odorico, che maestro era di guerra, in pochi colpi a tal vantaggio venne,
che per morto lasciò Corebo in terra, e per le mie vestigie il camin tenne.
Prestògli Amor (se ‘l mio creder non erra), acciò potesse giungermi, le penne;
e gl’insegnò molte lusinghe e prieghi, con che ad amarlo e compiacer mi pieghi.

27
Ma tutto è indarno; che fermata e certa più tosto era a morir, ch’a satisfarli.
Poi ch’ogni priego, ogni lusinga esperta ebbe e minacce, e non potean giovarli,
si ridusse alla forza a faccia aperta. Nulla mi val che supplicando parli
de la fé ch’avea in lui Zerbino avuta, e ch’io ne le sue man m’era creduta.

28
Poi che gittar mi vidi i prieghi invano, né mi sperare altronde altro soccorso,
e che più sempre cupido e villano
a me venìa, come famelico orso;
io mi difesi con piedi e con mano,
ed adopra’vi sin a l’ugne e il morso: pela’gli il mento, e gli graffiai la pelle, con stridi che n’andavano alle stelle.

29
Non so se fosse caso, o li miei gridi che si doveano udir lungi una lega,
o pur ch’usati sian correre ai lidi quando navilio alcun si rompe o anniega; sopra il monte una turba apparir vidi,
e questa al mare e verso noi si piega. Come la vede il Biscaglin venire,
lascia l’impresa, e voltasi a fuggire.

30
Contra quel disleal mi fu adiutrice questa turba, signor; ma a quella image
che sovente in proverbio il vulgo dice: cader de la padella ne le brage.
Gli è ver ch’io non son stata sì infelice, né le lor menti ancor tanto malvage,
ch’abbino violata mia persona:
non che sia in lor virtù, né cosa buona.

31
Ma perché se mi serban, come io sono, vergine, speran vendermi più molto.
Finito è il mese ottavo e viene il nono, che fu il mio vivo corpo qui sepolto.
Del mio Zerbino ogni speme abbandono; che già, per quanto ho da lor detti accolto, m’han promessa e venduta a un mercadante, che portare al soldan mi de’ in Levante. –

32
Così parlava la gentil donzella;
e spesso con signiozzi e con sospiri interrompea l’angelica favella,
da muovere a pietade aspidi e tiri. Mentre sua doglia così rinovella,
o forse disacerba i suoi martiri,
da venti uomini entrar ne la spelonca, armati chi di spiedo e chi di ronca.

33
Il primo d’essi, uom di spietato viso, ha solo un occhio, e sguardo scuro e bieco; l’altro, d’un colpo che gli avea reciso
il naso e la mascella, è fatto cieco. Costui vedendo il cavalliero assiso
con la vergine bella entro allo speco, volto a’ compagni, disse: – Ecco augel nuovo, a cui non tesi, e ne la rete il truovo. –

34
Poi disse al conte: – Uomo non vidi mai più commodo di te, né più opportuno.
Non so se ti se’ apposto, o se lo sai perché te l’abbia forse detto alcuno,
che sì bell’arme io desiava assai,
e questo tuo leggiadro abito bruno. Venuto a tempo veramente sei,
per riparare agli bisogni miei. –

35
Sorrise amaramente, in piè salito,
Orlando, e fe’ risposta al mascalzone: – Io ti venderò l’arme ad un partito
che non ha mercadante in sua ragione. – Del fuoco, ch’avea appresso, indi rapito pien di fuoco e di fumo uno stizzone,
trasse, e percosse il malandrino a caso, dove confina con le ciglia il naso.

36
Lo stizzone ambe le palpebre colse, ma maggior danno fe’ ne la sinistra;
che quella parte misera gli tolse,
che de la luce sola, era ministra.
Né d’acciecarlo contentar si volse
il colpo fier, s’ancor non lo registra tra quelli spirti che con suoi compagni
fa star Chiron dentro ai bollenti stagni.

37
Ne la spelonca una gran mensa siede grossa duo palmi, e spaziosa in quadro,
che sopra un mal pulito e grosso piede, cape con tutta la famiglia il ladro.
Con quell’agevolezza che si vede
gittar la canna lo Spagnuol leggiadro, Orlando il grave desco da sé scaglia
dove ristretta insieme è la canaglia.

38
A chi’l petto, a chi’l ventre, a chi la testa, a chi rompe le gambe, a chi le braccia;
di ch’altri muore, altri storpiato resta: chi meno è offeso, di fuggir procaccia.
Così talvolta un grave sasso pesta
e fianchi e lombi, e spezza capi e schiaccia, gittato sopra un gran drapel di biscie,
che dopo il verno al sol si goda e liscie.

39
Nascono casi, e non saprei dir quanti: una muore, una parte senza coda,
un’altra non si può muover davanti, e ‘l deretano indarno aggira e snoda;
un’altra, ch’ebbe più propizi i santi, striscia fra l’erbe, e va serpendo a proda. Il colpo orribil fu, ma non mirando,
poi che lo fece il valoroso Orlando.

40
Quei che la mensa o nulla o poco offese (e Turpin scrive a punto che fur sette), ai piedi raccomandan sue difese:
ma ne l’uscita il paladin si mette; e poi che presi gli ha senza contese,
le man lor lega con la fune istrette, con una fune al suo bisogno destra,
che ritrovò ne la casa silvestra.

41
Poi li trascina fuor de la spelonca, dove facea grande ombra un vecchio sorbo. Orlando con la spada i rami tronca,
e quelli attacca per vivanda al corbo. Non bisognò catena in capo adonca;
che per purgare il mondo di quel morbo, l’arbor medesmo gli uncini prestolli,
con che pel mento Orlando ivi attaccolli.

42
La donna vecchia, amica a’ malandrini, poi che restar tutti li vide estinti,
fuggì piangendo e con le mani ai crini, per selve e boscherecci labirinti.
Dopo aspri e malagevoli camini,
a gravi passi e dal timor sospinti, in ripa un fiume in un guerrier scontrosse; ma diferisco a ricontar chi fosse:

43
e torno all’altra, che si raccomanda al paladin che non la lasci sola;
e dice di seguirlo in ogni banda.
Cortesemente Orlando la consola;
e quindi, poi ch’uscì con la ghirlanda di rose adorna e di purpurea stola
la bianca Aurora al solito camino,
partì con Isabella il paladino.

44
Senza trovar cosa che degna sia
d’istoria, molti giorni insieme andaro; e finalmente un cavallier per via,
che prigione era tratto, riscontraro. chi fosse, dirò poi; ch’or me ne svia
tal, di chi udir non vi sarà men caro: la figliuola d’Amon, la qual lasciai
languida dianzi in amorosi guai.

45
La bella donna, disiando invano
ch’a lei facesse il suo Ruggier ritorno, stava a Marsilia, ove allo stuol pagano
dava da travagliar quasi ogni giorno; il qual scorrea, rubando in monte e in piano, per Linguadoca e per Provenza intorno:
ed ella ben facea l’ufficio vero
di savio duca e d’ottimo guerriero.

46
Standosi quivi, e di gran spazio essendo passato il tempo che tornare a lei
il suo Ruggier dovea, né lo vedendo, vivea in timor di mille casi rei.
Un dì fra gli altri, che di ciò piangendo stava solinga, le arrivò colei
che portò ne l’annel la medicina
che sanò il cor ch’avea ferito Alcina.

47
Come a sé ritornar senza il suo amante, dopo si lungo termine, la vede,
resta pallida e smorta, e sì tremante, che non ha forza di tenersi in piede:
ma la maga gentil le va davante
ridendo, poi che del timor s’avede; e con viso giocondo la conforta,
qual aver suol chi buone nuove apporta.

48
– Non temer (disse) di Ruggier, donzella, ch’è vivo e sano, e come suol, t’adora;
ma non è già in sua libertà; che quella pur gli ha levata il tuo nemico ancora:
ed è bisogno che tu monti in sella, se brami averlo, e che mi segui or ora;
che se mi segui, io t’aprirò la via donde per te Ruggier libero fia. –

49
E seguitò, narrandole di quello
magico error che gli avea ordito Atlante: che simulando d’essa il viso bello,
che captiva parea del rio gigante,
tratto l’avea ne l’incantato ostello, dove sparito poi gli era davante;
e come tarda con simile inganno
le donne e i cavallier che di là vanno.

50
A tutti par, l’incantator mirando,
mirar quel che per sé brama ciascuno, donna, scudier, compagno, amico; quando
il desiderio uman non è tutto uno.
Quindi il palagio van tutti cercando con lungo affanno, senza frutto alcuno;
e tanta è la speranza e il gran disire del ritrovar, che non ne san partire.

51
Come tu giungi (disse) in quella parte che giace presso all’incantata stanza,
verrà l’incantatore a ritrovarte,
che terrà di Ruggiero ogni sembianza; e ti farà parer con sua mal’arte,
ch’ivi lo vinca alcun di più possanza, acciò che tu per aiutarlo vada
dove con gli altri poi ti tenga a bada.

52
Acciò l’inganni, in che son tanti e tanti caduti, non ti colgan, sie avertita,
che se ben di Ruggier viso e sembianti ti parrà di veder, che chieggia aita,
non gli dar fede tu; ma, come avanti ti vien, fagli lasciar l’indegna vita:
né dubitar perciò che Ruggier muoia, ma ben colui che ti dà tanta noia.

53
Ti parrà duro assai, ben lo conosco, uccidere un che sembri il tuo Ruggiero:
pur non dar fede all’occhio tuo, che losco farà l’incanto, e celeragli il vero.
Fermati, pria ch’io ti conduca al bosco, sì che poi non si cangi il tuo pensiero; che sempre di Ruggier rimarrai priva,
se lasci per viltà che ‘l mago viva. –

54
La valorosa giovane, con questa
intenzion che ‘l fraudolente uccida, a pigliar l’arme ed a seguire è presta
Melissa; che sa ben quanto l’è fida. Quella, or per terren culto, or per foresta, a gran giornate e in gran fretta la guida, cercando alleviarle tuttavia
con parlar grato la noiosa via.

55
E più di tutti i bei ragionamenti,
spesso le ripetea ch’uscir di lei
e di Ruggier doveano gli eccellenti principi e gloriosi semidei.
Come a Melissa fossino presenti
tutti i secreti degli eterni dei,
tutte le cose ella sapea predire,
ch’avean per molti seculi a venire.

56
– Deh, come, o prudentissima mia scorta (dicea a la maga l’inclita donzella),
molti anni prima tu m’hai fatta accorta di tanta mia viril progenie bella;
così d’alcuna donna mi conforta,
che di mia stirpe sia, s’alcuna in quella metter si può tra belle e virtuose. –
E la cortese maga le rispose:

57
– Da te uscir veggio le pudiche donne, madri d’imperatori e di gran regi,
reparatrici e solide colonne
di case illustri e di domìni egregi; che men degne non son ne le lor gonne,
ch’in arme i cavallier, di sommi pregi, di pietà, di gran cor, di gran prudenza, di somma e incomparabil continenza.

58
E s’io avrò da narrarti di ciascuna che ne la stirpe tua sia d’onor degna,
troppo sarà; ch’io non ne veggio alcuna che passar con silenzio mi convegna.
Ma ti farò, tra mille, scelta d’una o di due coppie, acciò ch’a fin ne vegna. Ne la spelonca perché nol dicesti?
che l’imagini ancor vedute avresti.

59
De la tua chiara stirpe uscirà quella d’opere illustri e di bei studi amica,
ch’io non so ben se più leggiadra e bella mi debba dire, o più saggia e pudica,
liberale e magnanima Isabella,
che del bel lume suo dì e notte aprica farà la terra che sul Menzo siede,
a cui la madre d’Ocno il nome diede:

60
dove onorato e splendido certame
avrà col suo dignissimo consorte,
chi di lor più le virtù prezzi ed ame, e chi meglio apra a cortesia le porte.
S’un narrerà ch’al Taro e nel Reame fu a liberar da’ Galli Italia forte;
l’altra dirà: – Sol perché casta visse Penelope, non fu minor d’Ulisse. –

61
Gran cose e molte in brevi detti accolgo di questa donna e più dietro ne lasso,
che in quelli dì ch’io mi levai dal volgo, mi fe’ chiare Merlin dal cavo sasso.
E s’in questo gran mar la vela sciolgo, di lunga Tifi in navigar trapasso.
Conchiudo in somma, ch’ella avrà, per dono, de la virtù e del ciel, ciò ch’è di buono.

62
Seco avrà la sorella Beatrice,
a cui si converrà tal nome a punto: ch’essa non sol del ben che qua giù lice, per quel che viverà, toccherà il punto;
ma avrà forza di far seco felice,
fra tutti i ricchi duci, il suo congiunto, il qual, come ella poi lascerà il mondo, così de l’infelici andrà nel fondo.

63
E Moro e Sforza e Viscontei colubri, lei viva, formidabili saranno
da l’iperboree nievi ai lidi rubri, da l’Indo ai monti ch’al tuo mar via danno: lei morta, andran col regno degl’Insubri, e con grave di tutta Italia danno,
in servitute; e fia stimata, senza
costei, ventura la somma prudenza.

64
Vi saranno altre ancor, ch’avranno il nome medesmo, e nasceran molt’anni prima:
di ch’una s’ornerà le sacre chiome
de la corona di Pannonia opima;
un’altra, poi che le terrene some
lasciate avrà, fia ne l’ausonio clima collocata nel numer de le dive,
ed avrà incensi e imagini votive.

65
De l’altre tacerò; che, come ho detto, lungo sarebbe a ragionar di tante;
ben che per sé ciascuna abbia suggetto degno, ch’eroica e chiara tuba cante.
Le Bianche, le Lucrezie io terrò in petto, e le Costanze e l’altre, che di quante
splendide case Italia reggeranno,
reparatrici e madri ad esser hanno.

66
Più ch’altre fosser mai, le tue famiglie saran ne le lor donne aventurose;
non dico in quella più de le lor figlie, che ne l’alta onestà de le lor spose.
E acciò da te notizia anco si piglie di questa parte che Merlin mi espose,
forse perch’io ‘l dovessi a te ridire, ho di parlarne non poco desire.

67
E dirò prima di Ricciarda, degno
esempio di fortezza e d’onestade:
vedova rimarrà, giovane, a sdegno
di Fortuna; il che spesso ai buoni accade. I figli, privi del paterno regno,
esuli andar vedrà in strane contrade, fanciulli in man degli aversari loro;
ma infine avrà il suo male amplo ristoro.

68
De l’alta stirpe d’Aragone antica
non tacerò la splendida regina,
di cui né saggia sì, né sì pudica
veggio istoria lodar greca o latina, né a cui Fortuna più si mostri amica:
poi che sarà da la Bontà divina
elletta madre a parturir la bella
progenie, Alfonso, Ippolito e Isabella.

69
Costei sarà la saggia Leonora,
che nel tuo felice arbore s’inesta. Che ti dirò de la seconda nuora,
succeditrice prossima di questa?
Lucrezia Borgia, di cui d’ora in ora le beltà, la virtù, la fama onesta
e la fortuna crescerà, non meno
che giovin pianta in morbido terreno.

70
Qual lo stagno all’argento, il rame all’oro, il campestre papavero alla rosa,
pallido salce al sempre verde alloro, dipinto vetro a gemma preziosa;
tal a costei, ch’ancor non nata onoro, sarà ciascuna insino a qui famosa
di singular beltà, di gran prudenza, e d’ogni altra lodevole eccellenza.

71
E sopra tutti gli altri incliti pregi che le saranno e a viva e a morta dati,
si loderà che di costumi regi
Ercole e gli altri figli avrà dotati, e dato gran principio ai ricchi fregi
di che poi s’orneranno in toga e armati; perché l’odor non se ne va sì in fretta, ch’in nuovo vaso, o buono o rio, si metta.

72
Non voglio ch’in silenzio anco Renata di Francia, nuora di costei, rimagna,
di Luigi il duodecimo re nata,
e de l’eterna gloria di Bretagna.
Ogni virtù ch’in donna mai sia stata, di poi che ‘l fuoco scalda e l’acqua bagna, e gira intorno il cielo, insieme tutta
per Renata adornar veggio ridutta.

73
Lungo sarà che d’Alda di Sansogna
narri, o de la contessa di Celano,
o di Bianca Maria di Catalogna,
o de la figlia del re sicigliano,
o de la bella Lippa da Bologna,
e d’altre; che s’io vo’ di mano in mano venirtene dicendo le gran lode,
entro in un alto mar che non ha prode. –

74
Poi che le raccontò la maggior parte de la futura stirpe a suo grand’agio,
più volte e più le replicò de l’arte ch’avea tratto Ruggier dentro al palagio. Melissa si fermò, poi che fu in parte
vicina al luogo del vecchio malvagio; e non le parve di venir più inante,
acciò veduta non fosse da Atlante.

75
E la donzella di nuovo consiglia
di quel che mille volte ormai l’ha detto. La lascia sola; e quella oltre a dua miglia non cavalcò per un sentiero istretto,
che vide quel ch’al suo Ruggier simiglia; e dui giganti di crudele aspetto
intorno avea, che lo stringean sì forte, ch’era vicino esser condotto a morte.

76
Come la donna in tal periglio vede
colui che di Ruggiero ha tutti i segni, subito cangia in sospizion la fede,
subito oblia tutti i suoi bei disegni. Che sia in odio a Melissa Ruggier crede, per nuova ingiuria e non intesi sdegni,
e cerchi far con disusata trama
che sia morto da lei che così l’ama.

77
Seco dicea: – Non è Ruggier costui, che col cor sempre, ed or con gli occhi veggio? e s’or non veggio e non conosco lui,
che mai veder o mai conoscer deggio? perché voglio io de la credenza altrui
che la veduta mia giudichi peggio?
Che senza gli occhi ancor, sol per se stesso può il cor sentir se gli è lontano o appresso. –

78
Mentre che così pensa, ode la voce
che le par di Ruggier, chieder soccorso; e vede quello a un tempo, che veloce
sprona il cavallo e gli ralenta il morso, e l’un nemico e l’altro suo feroce,
che lo segue e lo caccia a tutto corso. Di lor seguir la donna non rimase,
che si condusse all’incantate case.

79
De le quai non più tosto entrò le porte, che fu sommersa nel commune errore.
Lo cercò tutto per vie dritte e torte invan di su e di giù, dentro e di fuore; né cessa notte o dì, tanto era forte
l’incanto: e fatto avea l’incantatore, che Ruggier vede sempre e gli favella,
né Ruggier lei, né lui riconosce ella.

80
Ma lasciàn Bradamante, e non v’incresca udir che così resti in quello incanto;
che quando sarà il tempo ch’ella n’esca, la farò uscire, e Ruggiero altretanto.
Come raccende il gusto il mutar esca, così mi par che la mia istoria, quanto
or qua or là più variata sia,
meno a chi l’udirà noiosa fia.

81
Di molte fila esser bisogno parme
a condur la gran tela ch’io lavoro. E però non vi spiaccia d’ascoltarme,
come fuor de le stanze il popul Moro davanti al re Agramante ha preso l’arme, che, molto minacciando ai Gigli d’oro,
lo fa assembrare ad una mostra nuova, per saper quanta gente si ritruova.

82
Perch’oltre i cavallieri, oltre i pedoni ch’al numero sottratti erano in copia,
mancavan capitani, e pur de’ buoni, e di Spagna e di Libia e d’Etiopia,
e le diverse squadre e le nazioni
givano errando senza guida propia;
per dare e capo ed ordine a ciascuna, tutto il campo alla mostra si raguna.

83
In supplimento de le turbe uccise
ne le battaglie e ne’ fieri conflitti, l’un signore in Ispagna, e l’altro mise
in Africa, ove molti n’eran scritti; e tutti alli lor ordini divise,
e sotto i duci lor gli ebbe diritti. Differirò, Signor, con grazia vostra,
ne l’altro canto l’ordine e la mostra.

CANTO QUATTORDICESIMO

1
Nei molti assalti e nei crudel conflitti, ch’avuti avea con Francia, Africa e Spagna, morti erano infiniti, e derelitti
al lupo, al corvo, all’aquila griffagna; e ben che i Franchi fossero più afflitti, che tutta avean perduta la campagna;
più si doleano i Saracin, per molti principi e gran baron ch’eran lor tolti.

2
Ebbon vittorie così sanguinose,
che lor poco avanzò di che allegrarsi. E se alle antique le moderne cose,
invitto Alfonso, denno assimigliarsi; la gran vittoria, onde alle virtuose
opere vostre può la gloria darsi,
di ch’aver sempre lacrimose ciglia
Ravenna debbe, a queste s’assimiglia:

3
quando cedendo Morini e Picardi,
l’esercito normando e l’aquitano,
voi nel mezzo assaliste gli stendardi del quasi vincitor nimico ispano,
seguendo voi quei gioveni gagliardi, che meritar con valorosa mano
quel dì da voi, per onorati doni,
l’else indorate e gl’indorati sproni.

4
Con sì animosi petti che vi foro
vicini o poco lungi al gran periglio, crollaste sì le ricche Giande d’oro,
sì rompeste il baston giallo e vermiglio, ch’a voi si deve il trionfale alloro,
che non fu guasto né sfiorato il Giglio. D’un’altra fronde v’orna anco la chioma
l’aver serbato il suo Fabrizio a Roma.

5
La gran Colonna del nome romano,
che voi prendeste, e che servaste intera, vi dà più onor che se di vostra mano
fosse caduta la milizia fiera,
quanta n’ingrassa il campo ravegnano, e quanta se n’andò senza bandiera
d’Aragon, di Castiglia e di Navarra, veduto non giovar spiedi né carra.

6
Quella vittoria fu più di conforto, che d’allegrezza; perché troppo pesa
contra la gioia nostra il veder morto il capitan di Francia e de l’impresa;
e seco avere una procella absorto
tanti principi illustri, ch’a difesa dei regni lor, dei lor confederati,
di qua da le fredd’Alpi eran passati.

7
Nostra salute, nostra vita in questa vittoria suscitata si conosce,
che difende che ‘l verno e la tempesta di Giove irato sopra noi non crosce:
ma né goder potiam, né farne festa, sentendo i gran ramarichi e l’angosce,
ch’in veste bruna e lacrimosa guancia le vedovelle fan per tutta Francia.

8
Bisogna che proveggia il re Luigi
di nuovi capitani alle sue squadre, che per onor de l’aurea Fiordaligi
castighino le man rapaci e ladre,
che suore, e frati e bianchi e neri e bigi violato hanno, e sposa e figlia e madre; gittato in terra Cristo in sacramento,
per torgli un tabernaculo d’argento.

9
O misera Ravenna, t’era meglio
ch’al vincitor non fêssi resistenza; far ch’a te fosse inanzi Brescia speglio, che tu lo fossi a Arimino e a Faenza.
Manda, Luigi, il buon Traulcio veglio, ch’insegni a questi tuoi più continenza, e conti lor quanti per simil torti
stati ne sian per tutta Italia morti.

10
Come di capitani bisogna ora
che ‘l re di Francia al campo suo proveggia, così Marsilio ed Agramante allora,
per dar buon reggimento alla sua greggia, dai lochi dove il verno fe’ dimora,
vuol ch’in campagna all’ordine si veggia; perché vedendo ove bisogno sia,
guida e governo ad ogni schiera dia.

11
Marsilio prima, e poi fece Agramante passar la gente sua schiera per schiera. I Catalani a tutti gli altri inante
di Dorifebo van con la bandiera.
Dopo vien, senza il suo re Folvirante, che per man di Rinaldo già morto era,
la gente di Navarra; e lo re ispano halle dato Isolier per capitano.

12
Balugante del popul di Leone,
Grandonio cura degli Algarbi piglia; il fratel di Marsilio, Falsirone,
ha seco armata la minor Castiglia.
Seguon di Madarasso il gonfalone
quei che lasciato han Malaga e Siviglia, dal mar di Gade a Cordova feconda
le verdi ripe ovunque il Beti inonda.

13
Stordilano e Tesira e Baricondo,
l’un dopo l’altro, mostra la sua gente: Granata al primo, Ulisbona al secondo,
e Maiorica al terzo è ubidiente.
Fu d’Ulisbona re (tolto dal mondo
Larbin) Tesira, di Larbin parente.
Poi vien Galizia, che sua guida, in vece di Maricoldo, Serpentino fece.

14
Quei di Tolledo e quei di Calatrava, di ch’ebbe Sinagon già la bandiera,
con tutta quella gente che si lava
in Guadiana e bee de la riviera,
l’audace Matalista governava;
Bianzardin quei d’Asturga in una schiera con quei di Salamanca e di Piagenza,
d’Avila, di Zamora e di Palenza.

15
Di quei di Saragosa e de la corte
del re Marsilio ha Ferraù il governo: tutta la gente è ben armata e forte.
In questi è Malgarino, Balinverno,
Malzarise e Morgante, ch’una sorte
avea fatto abitar paese esterno;
che, poi che i regni lor lor furon tolti, gli avea Marsilio in corte sua raccolti.

16
In questa è di Marsilio il gran bastardo, Follicon d’Almeria, con Doriconte,
Bavarte e Largalifa ed Analardo,
ed Archidante il sagontino conte,
e Lamirante e Langhiran gagliardo,
e Malagur ch’avea l’astuzie pronte, ed altri ed altri, di quai penso, dove
tempo sarà, di far veder le pruove.

17
Poi che passò l’esercito di Spagna
con bella mostra inanzi al re Agramante, con la sua squadra apparve alla campagna il re d’Oran, che quasi era gigante.
L’altra che vien, per Martasin si lagna, il qual morto le fu da Bradamante;
e si duol ch’una femina si vanti
d’aver ucciso il re de’ Garamanti.

18
Segue la terza schiera di Marmonda, ch’Argosto morto abbandonò in Guascogna: a questa un capo, come alla seconda
e come anco alla quarta, dar bisogna. Quantunque il re Agramante non abonda
di capitani, pur ne finge e sogna:
dunque Buraldo, Ormida, Arganio elesse, e dove uopo ne fu, guida li messe.

19
Diede ad Arganio quei di Libicana,
che piangean morto il negro Dudrinasso. Guida Brunello i suoi di Tingitana,
con viso nubiloso e ciglio basso;
che, poi che ne la selva non lontana dal castel ch’ebbe Atlante in cima al sasso, gli fu tolto l’annel da Bradamante,
caduto era in disgrazia al re Agramante:

20
e se ‘l fratel di Ferraù, Isoliero, ch’a l’arbore legato ritrovollo,
non facea fede inanzi al re del vero, avrebbe dato in su le forche un crollo.
Mutò, a’ prieghi di molti, il re pensiero, già avendo fatto porgli il laccio al collo: gli lo fece levar, ma riserbarlo
pel primo error; che poi giurò impiccarlo:

21
sì ch’avea causa di venir Brunello
col viso mesto e con la testa china. Seguia poi Farurante, e dietro a quello
eran cavalli e fanti di Maurina.
Venìa Libanio appresso, il re novello: la gente era con lui di Constantina;
però che la corona e il baston d’oro gli ha dato il re, che fu di Pinadoro.

22
Con la gente d’Esperia Soridano,
e Dorilon ne vien con quei di Setta; ne vien coi Nasamoni Puliano.
Quelli d’Amonia il re Agricalte affretta; Malabuferso quelli di Fizano.
Da Finadurro è l’altra squadra retta, che di Canaria viene e di Marocco;
Balastro ha quei che fur del re Tardocco.

23
Due squadre, una di Mulga, una d’Arzilla, seguono: e questa ha ‘l suo signore antico; quella n’è priva; e però il re sortilla, e diella a Corineo suo fido amico.
E così de la gente d’Almansilla,
ch’ebbe Tanfirion, fe’ re Caico;
diè quella di Getulia a Rimedonte.
Poi vien con quei di Cosca Balinfronte.

24
Quell’altra schiera è la gente di Bolga: suo re è Clarindo, e già fu Mirabaldo.
Vien Baliverzo, il qual vuò che tu tolga di tutto il gregge pel maggior ribaldo.
Non credo in tutto il campo si disciolga bandiera ch’abbia esercito più saldo
de l’altra, con che segue il re Sobrino, né più di lui prudente Saracino.

25
Quei di Bellamarina, che Gualciotto solea guidare, or guida il re d’Algieri
Rodomonte, e di Sarza, che condotto di nuovo avea pedoni e cavallieri;
che mentre il sol fu nubiloso sotto il gran centauro e i corni orridi e fieri, fu in Africa mandato da Agramante,
onde venuto era tre giorni inante.

26
Non avea il campo d’Africa più forte, né Saracin più audace di costui:
e più temean le parigine porte,
ed avean più cagion di temer lui,
che Marsilio, Agramante e la gran corte ch’avea seguito in Francia questi dui:
e più d’ogni altro che facesse mostra, era nimico de la fede nostra.

27
Vien Prusione, il re de l’Alvaracchie; poi quel de la Zumara, Dardinello.
Non so s’abbiano o nottole o cornacchie, o altro manco ed importuno augello,
il qual dai tetti e da le fronde gracchie futuro mal, predetto a questo e a quello, che fissa in ciel nel dì seguente è l’ora che l’uno e l’altro in quella pugna muora.

28
In campo non aveano altri a venire, che quei di Tremisenne e di Norizia;
né si vedea alla mostra comparire
il segno lor, né dar di sé notizia. Non sapendo Agramante che si dire,
né che pensar di questa lor pigrizia, uno scudiero al fin gli fu condutto
del re di Tremisen, che narrò il tutto.

29
E gli narrò ch’Alzirdo e Manilardo
con molti altri de’ suoi giaceano al campo. – Signor (diss’egli), il cavallier gagliardo ch’ucciso ha i nostri, ucciso avria il tuo campo, se fosse stato a torsi via più tardo
di me, ch’a pena ancor così ne scampo. Fa quel de’ cavallieri e de’ pedoni,
che ‘l lupo fa di capre e di montoni. –

30
Era venuto pochi giorni avante
nel campo del re d’Africa un signore; né in Ponente era, né in tutto Levante,
di più forza di lui, né di più core. Gli facea grande onore il re Agramante,
per esser costui figlio e successore in Tartaria del re Agrican gagliardo:
suo nome era il feroce Mandricardo.

31
Per molti chiari gesti era famoso,
e di sua fama tutto il mondo empìa; ma lo facea più d’altro glorioso,
ch’al castel de la fata di Soria
l’usbergo avea acquistato luminoso
ch’Ettor troian portò mille anni pria, per strana e formidabile aventura,
che ‘l ragionarne pur mette paura.

32
Trovandosi costui dunque presente
a quel parlar, alzò l’ardita faccia; e si dispose andare immantinente,
per trovar quel guerrier, dietro alla traccia. Ritenne occulto il suo pensiero in mente, o sia perché d’alcun stima non faccia,
o perché tema, se ‘l pensier palesa, ch’un altro inanzi a lui pigli l’impresa.

33
Allo scudier fe’ dimandar come era
la sopravesta di quel cavalliero.
Colui rispose: – Quella è tutta nera, lo scudo nero, e non ha alcun cimiero. – E fu, Signor, la sua risposta vera,
perché lasciato Orlando avea il quartiero; che come dentro l’animo era in doglia,
così imbrunir di fuor volse la spoglia.

34
Marsilio a Mandricardo avea donato
un destrier baio a scorza di castagna, con gambe e chiome nere; ed era nato
di frisa madre e d’un villan di Spagna. Sopra vi salta Mandricardo armato,
e galoppando va per la campagna;
e giura non tornare a quelle schiere se non truova il campion da l’arme nere.

35
Molta incontrò de la paurosa gente
che da le man d’Orlando era fuggita, chi del figliuol, chi del fratel dolente, ch’inanzi agli occhi suoi perdè la vita. Ancora la codarda e trista mente
ne la pallida faccia era sculpita;
ancor, per la paura che avuta hanno, pallidi, muti ed insensati vanno.

36
Non fe’ lungo camin, che venne dove crudel spettaculo ebbe ed inumano,
ma testimonio alle mirabil pruove
che fur raconte inanzi al re africano. Or mira questi, or quelli morti, e muove, e vuol le piaghe misurar con mano,
mosso da strana invidia ch’egli porta al cavallier ch’avea la gente morta.

37
Come lupo o mastin ch’ultimo giugne al bue lasciato morto da’ villani,
che truova sol le corna, l’ossa e l’ugne, del resto son sfamati augelli e cani;
riguarda invano il teschio che non ugne: così fa il crudel barbaro in que’ piani. Per duol bestemmia, e mostra invidia immensa, che venne tardi e così ricca mensa.

38
Quel giorno e mezzo l’altro segue incerto il cavallier dal negro, e ne domanda.
Ecco vede un pratel d’ombre coperto, che sì d’un alto fiume si ghirlanda,
che lascia a pena un breve spazio aperto, dove l’acqua si torce ad altra banda.
Un simil luogo con girevol onda
sotto Ocricoli il Tevere circonda.

39
Dove entrar si potea, con l’arme indosso stavano molti cavallieri armati.
Chiede il pagan, chi gli avea in stuol sì grosso, ed a che effetto insieme ivi adunati.
Gli fe’ risposta il capitano, mosso dal signoril sembiante e da’ fregiati
d’oro e di gemme arnesi di gran pregio, che lo mostravan cavalliero egregio.

40
– Dal nostro re siàn (disse) di Granata chiamati in compagnia de la figliuola,
la quale al re di Sarza ha maritata, ben che di ciò la fama ancor non vola.
Come appresso la sera racchetata
la cicaletta sia, ch’or s’ode sola, avanti al padre fra l’ispane torme
la condurremo: intanto ella si dorme. –

41
Colui, che tutto il mondo vilipende, disegna di veder tosto la pruova,
se quella gente o bene o mal difende la donna, alla cui guardia si ritruova.
Disse: – Costei, per quanto se n’intende, è bella; e di saperlo ora mi giova.
A lei mi mena, o falla qui venire;
ch’altrove mi convien subito gire. –

42
– Esser per certo dei pazzo solenne, – rispose il Granatin, né più gli disse.
Ma il Tartaro a ferir tosto lo venne con l’asta bassa, e il petto gli trafisse; che la corazza il colpo non sostenne,
e forza fu che morto in terra gisse. L’asta ricovra il figlio d’Agricane,
perché altro da ferir non gli rimane.

43
Non porta spada né baston; che quando l’arme acquistò, che fu d’Ettor troiano, perché trovò che lor mancava il brando,
gli convenne giurar (né giurò invano) che fin che non togliea quella d’Orlando, mai non porrebbe ad altra spada mano:
Durindana ch’Almonte ebbe in gran stima, e Orlando or porta, Ettor portava prima.

44
Grande è l’ardir del Tartaro, che vada con disvantaggio tal contra coloro,
gridando: – Chi mi vuol vietar la strada? – E con la lancia si cacciò tra loro.
Chi l’asta abbassa, e chi tra’ fuor la spada; e d’ogn’intorno subito gli foro.
Egli ne fece morir una frotta,
prima che quella lancia fosse rotta.

45
Rotta che se la vede, il gran troncone che resta intero, ad ambe mani afferra;
e fa morir con quel tante persone,
che non fu vista mai più crudel guerra. Come tra’ Filistei l’ebreo Sansone
con la mascella che levò di terra,
scudi spezza, elmi schiaccia, e un colpo spesso spenge i cavalli ai cavallieri appresso.

46
Correno a morte que’ miseri a gara, né perché cada l’un, l’altro andar cessa; che la maniera del morire, amara
lor par più assai che non è morte istessa. Patir non ponno che la vita cara
tolta lor sia da un pezzo d’asta fessa, e sieno sotto alle picchiate strane
a morir giunti, come biscie o rane.

47
Ma poi ch’a spese lor si furo accorti che male in ogni guisa era morire,
sendo già presso alli duo terzi morti, tutto l’avanzo cominciò a fuggire.
Come del proprio aver via se gli porti, il Saracin crudel non può patire
ch’alcun di quella turba sbigottita da lui partir si debba con la vita.

48
Come in palude asciutta dura poco
stridula canna, o in campo àrrida stoppia contra il soffio di borea e contra il fuoco che ‘l cauto agricultore insieme accoppia, quando la vaga fiamma occupa il loco,
e scorre per li solchi, e stride e scoppia; così costor contra la furia accesa
di Mandricardo fan poca difesa.

49
Poscia ch’egli restar vede l’entrata, che mal guardata fu, senza custode;
per la via che di nuovo era segnata ne l’erba, e al suono dei ramarchi ch’ode, viene a veder la donna di Granata,
se di bellezze è pari alle sue lode: passa tra i corpi de la gente morta,
dove gli dà, torcendo, il fiume porta.

50
E Doralice in mezzo il prato vede
(che così nome la donzella avea),
la qual, suffolta da l’antico piede d’un frassino silvestre, si dolea.
Il pianto, come un rivo che succede di viva vena, nel bel sen cadea;
e nel bel viso si vedea che insieme de l’altrui mal si duole, e del suo teme.

51
Crebbe il timor, come venir lo vide di sangue brutto e con faccia empia e oscura, e’l grido sin al ciel l’aria divide,
di sé e de la sua gente per paura;
che, oltre i cavallier, v’erano guide, che de la bella infante aveano cura,
maturi vecchi, e assai donne e donzelle del regno di Granata, e le più belle.

52
Come il Tartaro vede quel bel viso
che non ha paragone in tutta Spagna, e c’ha nel pianto (or ch’esser de’ nel riso?) tesa d’Amor l’inestricabil ragna;
non sa se vive in terra o in paradiso: né de la sua vittoria altro guadagna,
se non che in man de la sua prigioniera si dà prigione, e non sa in qual maniera.

53
A lei però non si concede tanto,
che del travaglio suo le doni il frutto; ben che piangendo ella dimostri, quanto
possa donna mostrar, dolore e lutto. Egli, sperando volgerle quel pianto
in sommo gaudio, era disposto al tutto menarla seco; e sopra un bianco ubino
montar la fece, e tornò al suo camino.

54
Donne e donzelle e vecchi ed altra gente, ch’eran con lei venuti di Granata,
tutti licenziò benignamente,
dicendo: – Assai da me fia accompagnata; io mastro, io balia, io le sarò sergente in tutti i suoi bisogni: a Dio brigata. – Così, non gli possendo far riparo,
piangendo e sospirando se n’andaro;

55
tra lor dicendo: – Quanto doloroso
ne sarà il padre, come il caso intenda! quanta ira, quanto duol ne avrà il suo sposo! oh come ne farà vendetta orrenda!
Deh, perché a tempo tanto bisognoso non è qui presso a far che costui renda
il sangue illustre del re Stordilano, prima che se lo porti più lontano? –

56
De la gran preda il Tartaro contento, che fortuna e valor gli ha posta inanzi, di trovar quel dal negro vestimento
non par ch’abbia la fretta ch’avea dianzi. Correva dianzi: or viene adagio e lento; e pensa tuttavia dove si stanzi,
dove ritruovi alcun commodo loco,
per esalar tanto amoroso foco.

57
Tuttavolta conforta Doralice,
ch’avea di pianto e gli occhi e ‘l viso molle: compone e finge molte cose, e dice
che per fama gran tempo ben le volle; e che la patria, e il suo regno felice
che ‘l nome di grandezza agli altri tolle, lasciò, non per vedere o Spagna o Francia, ma sol per contemplar sua bella guancia.

58
– Se per amar, l’uom debbe essere amato, merito il vostro amor; che v’ho amat’io: se per stirpe, di me chi è meglio nato?
che’l possente Agrican fu il padre mio: se per ricchezza, chi ha di me più stato? che di dominio io cedo solo a Dio:
se per valor, credo oggi aver esperto ch’esser amato per valore io merto. –

59