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con quel Frontin che gira come un torno. Buon cavallo ha il figliuol di Monodante: non l’ha peggiore il re di Mezzogiorno;
ha Brigliador che gli donò Ruggiero poi che lo tolse a Mandricardo altiero.

92
Vantaggio ha bene assai de l’armatura; a tutta prova l’ha buona e perfetta.
Brandimarte la sua tolse a ventura, qual poté avere a tal bisogno in fretta: ma sua animosità sì l’assicura,
ch’in miglior tosto di cangiarla aspetta; come che ‘l re african d’aspra percossa
la spalla destra gli avea fatta rossa;

93
e serbi da Gradasso anco nel fianco piaga da non pigliar però da giuoco.
Tanto l’attese al varco il guerrier franco, che di cacciar la spada trovò loco.
Spezzò lo scudo, e ferì il braccio manco, e poi ne la man destra il toccò un poco. Ma questo un scherzo si può dire e un spasso verso quel che fa Orlando e ‘l re Gradasso.

94
Gradasso ha mezzo Orlando disarmato; l’elmo gli ha in cima e da dui lati rotto, e fattogli cader lo scudo al prato,
osbergo e maglia apertagli di sotto: non l’ha ferito già, ch’era affatato.
Ma il paladino ha lui peggio condotto: in faccia, ne la gola, in mezzo il petto l’ha ferito, oltre a quel che già v’ho detto.

95
Gradasso disperato, che si vede
del proprio sangue tutto molle e brutto, e ch’Orlando del suo dal capo al piede
sta dopo tanti colpi ancora asciutto; leva il brando a due mani, e ben si crede partirgli il capo, il petto, il ventre e ‘l tutto: e a punto, come vuol, sopra la fronte
percuote a mezza spada il fiero conte.

96
E s’era altro ch’Orlando, l’avria fatto, l’avria sparato fin sopra la sella:
ma, come colto l’avesse di piatto,
la spada ritornò lucida e bella.
De la percossa Orlando stupefatto,
vide, mirando in terra, alcuna stella: lasciò la briglia, e ‘l brando avria lasciato; ma di catena al braccio era legato.

97
Del suon del colpo fu tanto smarrito il corridor ch’Orlando avea sul dorso,
che discorrendo il polveroso lito,
mostrando gìa quanto era buono al corso. De la percossa il conte tramortito,
non ha valor di ritenergli il morso. Segue Gradasso, e l’avria tosto giunto,
poco più che Baiardo avesse punto.

98
Ma nel voltar degli occhi, il re Agramante vide condotto all’ultimo periglio:
che ne l’elmo il figliuol di Monodante col braccio manco gli ha dato di piglio; e glie l’ha dislacciato già davante,
e tenta col pugnal nuovo consiglio: né gli può far quel re difesa molta,
perché di man gli ha ancor la spada tolta.

99
Volta Gradasso, e più non segue Orlando, ma, dove vede il re Agramante, accorre.
L’incauto Brandimarte, non pensando ch’Orlando costui lasci da sé torre,
non gli ha né gli occhi né ‘l pensiero, instando il coltel ne la gola al pagan porre.
Giunge Gradasso, e a tutto suo potere con la spada a due man l’elmo gli fere.

100
Padre del ciel, dà fra gli eletti tuoi spiriti luogo al martir tuo fedele,
che giunto al fin de’ tempestosi suoi viaggi, in porto ormai lega le vele.
Ah Durindana, dunque esser tu puoi
al tuo signore Orlando sì crudele,
che la più grata compagnia e più fida ch’egli abbia al mondo, inanzi tu gli uccida?

101
Di ferro un cerchio grosso era duo dita intorno all’elmo, e fu tagliato e rotto
dal gravissimo colpo, e fu partita
la cuffia de l’acciar ch’era di sotto. Brandimarte con faccia sbigottita
giù del destrier si riversciò di botto; e fuor del capo fe’ con larga vena
correr di sangue un fiume in su l’arena.

102
Il conte si risente, e gli occhi gira, ed ha il suo Brandimarte in terra scorto; e sopra in atto il Serican gli mira,
che ben conoscer può che glie l’ha morto. Non so se in lui poté più il duolo o l’ira; ma da piangere il tempo avea sì corto,
che restò il duolo, e l’ira uscì più in fretta. Ma tempo è ormai che fine al canto io metta.

CANTO QUARANTADUESIMO

1
Qual duro freno o qual ferrigno nodo, qual, s’esser può, catena di diamante
farà che l’ira servi ordine e modo, che non trascorra oltre al prescritto inante, quando persona che con saldo chiodo
t’abbia già fissa Amor nel cor costante, tu vegga o per violenza o per inganno
patire o disonore o mortal danno?

2
E s’a crudel, s’ad inumano effetto
quell’impeto talor l’animo svia,
merita escusa, perché allor del petto non ha ragione imperio né balìa.
Achille, poi che sotto il falso elmetto vide Patròclo insanguinar la via,
d’uccider chi l’uccise non fu sazio, se nol traea, se non ne facea strazio.

3
Invitto Alfonso, simile ira accese
la vostra gente il dì che vi percosse la fronte il grave sasso, e sì v’offese, ch’ognun pensò che l’alma gita fosse:
l’accese in tal furor, che non difese vostri inimici argini o mura o fosse,
che non fossino insieme tutti morti, senza lasciar chi la novella porti.

4
Il vedervi cader causò il dolore
che i vostri a furor mosse e a crudeltade. S’eravate in piè voi, forse minore
licenza avriano avute le lor spade. Eravi assai, che la Bastia in manche ore v’aveste ritornata in potestade,
che tolta in giorni a voi non era stata da gente cordovese e di Granata.

5
Forse fu da Dio vindice permesso
che vi trovaste a quel caso impedito, acciò che ‘l crudo e scelerato eccesso
che dianzi fatto avean, fosse punito: che, poi ch’in lor man vinto si fu messo il miser Vestidel, lasso e ferito,
senz’arme fu tra cento spade ucciso dal popul la più parte circonciso.

6
Ma perch’io vo’ concludere, vi dico che nessun’altra quell’ira pareggia,
quando signor, parente, o sozio antico dinanzi agli occhi ingiuriar ti veggia.
Dunque è ben dritto per sì caro amico, che subit’ira il cor d’Orlando feggia;
che de l’orribil colpo che gli diede il re Gradasso, morto in terra il vede.

7
Quel nomade pastor che vedut’abbia
fuggir strisciando l’orrido serpente che il figliuol che giocava ne la sabbia, ucciso gli ha col venenoso dente,
stringe il baston con colera e con rabbia; tal la spada d’ogni altra più tagliente
stringe con ira il cavallier d’Anglante: il primo che trovò, fu ‘l re Agramante;

8
che sanguinoso e de la spada privo, con mezzo scudo e con l’elmo disciolto,
e ferito in più parti ch’io non scrivo, s’era di man di Brandimarte tolto,
come di piè all’astor sparvier mal vivo, a cui lasciò alla coda invido o stolto.
Orlando giunse, e messe il colpo giusto ove il capo si termina col busto.

9
Sciolto era l’elmo e disarmato il collo, sì che lo tagliò netto come un giunco.
Cadde, e diè nel sabbion l’ultimo crollo del regnator di Libia il grave trunco.
Corse lo spirto all’acque, onde tirollo Caron nel legno suo col graffio adunco.
Orlando sopra lui non si ritarda,
ma trova il Serican con Balisarda.

10
Come vide Gradasso d’Agramante
cadere il busto dal capo diviso;
quel ch’accaduto mai non gli era inante, tremò nel core e si smarrì nel viso;
e all’arrivar del cavallier d’Anglante, presago del suo mal, parve conquiso.
Per schermo suo partito alcun non prese, quando il colpo mortal sopra gli scese.

11
Orlando lo ferì nel destro fianco
sotto l’ultima costa; e il ferro, immerso nel ventre, un palmo uscì dal lato manco, di sangue sin all’elsa tutto asperso.
Mostrò ben che di man fu del più franco e del meglior guerrier de l’universo
il colpo ch’un signor condusse a morte, di cui non era in Pagania il più forte.

12
Di tal vittoria non troppo gioioso, presto di sella il paladin si getta;
e col viso turbato e lacrimoso
a Brandimarte suo corre a gran fretta. Gli vede intorno il campo sanguinoso:
l’elmo che par ch’aperto abbia una accetta, se fosse stato fral più che di scorza,
difeso non l’avria con minor forza.

13
Orlando l’elmo gli levò dal viso,
e ritrovò che ‘l capo sino al naso
fra l’uno e l’altro ciglio era diviso: ma pur gli è tanto spirto anco rimaso,
che de’ suoi falli al Re del paradiso può domandar perdono anzi l’occaso;
e confortare il conte, che le gote
sparge di pianto, a pazienza puote;

14
e dirgli: – Orlando, fa che ti raccordi di me ne l’orazion tue grate a Dio;
né men ti raccomando la mia Fiordi… – ma dir non poté: – … ligi -, e qui finio. E voci e suoni d’angeli concordi
tosto in aria s’udir, che l’alma uscìo; la qual disciolta dal corporeo velo
fra dolce melodia salì nel cielo.

15
Orlando, ancor che far dovea allegrezza di sì devoto fine, e sapea certo
che Brandimarte alla suprema altezza salito era (che ‘l ciel gli vide aperto); pur da la umana volontade, avezza
coi fragil sensi, male era sofferto ch’un tal più che fratel gli fosse tolto, e non aver di pianto umido il volto.

16
Sobrin che molto sangue avea perduto, che gli piovea sul fianco e su le gote,
riverso già gran pezzo era caduto,
e aver ne dovea ormai le vene vote. Ancor giacea Olivier, né riavuto
il piede avea, né riaver lo puote
se non ismosso, e de lo star che tanto gli fece il destrier sopra, mezzo infranto:

17
e se ‘l cognato non venìa ad aitarlo (sì come lacrimoso era e dolente),
per sé medesmo non potea ritrarlo;
e tanta doglia e tal martìr ne sente, che ritratto che l’ebbe, né a mutarlo
né a fermarvisi sopra era possente; e n’ha insieme la gamba sì stordita,
che muover non si può, se non si aita.

18
De la vittoria poco rallegrosse
Orlando; e troppo gli era acerbo e duro veder che morto Brandimarte fosse,
né del cognato molto esser sicuro.
Sobrin, che vivea ancora, ritrovosse, ma poco chiaro avea con molto oscuro;
che la sua vita per l’uscito sangue era vicina a rimanere esangue.

19
Lo fece tor, che tutto era sanguigno, il conte, e medicar discretamente;
e confortollo con parlar benigno,
come se stato gli fosse parente;
che dopo il fatto nulla di maligno
in sé tenea, ma tutto era clemente. Fece dei morti arme e cavalli torre;
del resto a’ servi lor lasciò disporre.

20
Qui de la istoria mia, che non sia vera, Federigo Fulgoso è in dubbio alquanto;
che con l’armata avendo la riviera
di Barberia trascorsa in ogni canto, capitò quivi, e l’isola sì fiera,
montuosa e inegual ritrovò tanto,
che non è, dice, in tutto il luogo strano, ove un sol piè si possa metter piano:

21
né verisimil tien che ne l’alpestre scoglio sei cavallieri, il fior del mondo, potesson far quella battaglia equestre.
Alla quale obiezion così rispondo:
ch’a quel tempo una piazza de le destre, che sieno a questo, avea lo scoglio al fondo; ma poi, ch’un sasso che ‘l tremuoto aperse, le cadde sopra, e tutta la coperse.

22
Sì che, o chiaro fulgor de la Fulgosa stirpe, o serena, o sempre viva luce,
se mai mi riprendeste in questa cosa, e forse inanti a quello invitto duce
per cui la vostra patria or si riposa, lascia ogni odio, e in amor tutta s’induce; vi priego che non siate a dirgli tardo,
ch’esser può che né in questo io sia bugiardo.

23
In questo tempo, alzando gli occhi al mare, vide Orlando venire a vela in fretta
un navilio leggier, che di calare
facea sembiante sopra l’isoletta.
Di chi si fosse, io non voglio or contare, perc’ho più d’uno altrove che m’aspetta. Veggiamo in Francia, poi che spinto n’hanno i Saracin, se mesti o lieti stanno.

24
Veggiàn che fa quella fedele amante che vede il suo contento ir sì lontano;
dico la travagliata Bradamante,
poi che ritrova il giuramento vano, ch’avea fatto Ruggier pochi dì inante,
udendo il nostro e l’altro stuol pagano. Poi ch’in questo ancor manca, non le avanza in ch’ella debba più metter speranza.

25
E ripetendo i pianti e le querele
che pur troppo domestiche le furo,
tornò a sua usanza a nominar crudele Ruggiero, e ‘l suo destin spietato e duro. Indi sciogliendo al gran dolor le vele,
il ciel, che consentia tanto pergiuro, né fatto n’avea ancor segno evidente,
ingiusto chiama, debole e impotente.

26
Ad accusar Melissa si converse,
e maledir l’oracol de la grotta;
ch’a lor mendace suasion s’immerse
nel mar d’amore, ov’è a morir condotta. Poi con Marfisa ritornò a dolerse
del suo fratel che le ha la fede rotta: con lei grida e si sfoga, e le domanda,
piangendo, aiuto, e se le raccomanda.

27
Marfisa si ristringe ne le spalle,
e, quel sol che pò far, le dà conforto; né crede che Ruggier mai così falle,
ch’a lei non debba ritornar di corto. E se non torna pur, sua fede dalle,
ch’ella non patirà sì grave torto;
o che battaglia piglierà con esso,
o gli farà osservar ciò c’ha promesso.

28
Così fa ch’ella un poco il duol raffrena; ch’avendo ove sfogarlo, è meno acerbo.
Or ch’abbiam vista Bradamante in pena, chiamar Ruggier pergiuro, empio e superbo; veggiamo ancor, se miglior vita mena
il fratel suo che non ha polso o nerbo, osso o medolla che non senta caldo
de le fiamme d’amor; dico Rinaldo.

29
dico Rinaldo, il qual, come sapete, Angelica la bella amava tanto;
né l’avea tratto all’amorosa rete
sì la beltà di lei, come l’incanto. Aveano gli altri paladin quiete,
essendo ai Mori ogni vigore affranto: tra i vincitori era rimaso solo
egli captivo in amoroso duolo.

30
Cento messi a cercar che di lei fusse avea mandato, e cerconne egli stesso.
Al fine a Malagigi si ridusse,
che nei bisogni suoi l’aiutò spesso. A narrar il suo amor se gli condusse
col viso rosso e col ciglio demesso; indi lo priega che gli insegni dove
la desiata Angelica si trove.

31
Gran maraviglia di sì strano caso
va rivolgendo a Malagigi il petto.
Sa che sol per Rinaldo era rimaso
d’averla cento volte e più nel letto: ed egli stesso, acciò che persuaso
fosse di questo, avea assai fatto e detto con prieghi e con minacce per piegarlo;
né mai avuto avea poter di farlo:

32
e tanto più, ch’allor Rinaldo avrebbe tratto fuor Malagigi di prigione.
Fare or spontaneamente lo vorrebbe, che nulla giova, e n’ha minor cagione.
Poi priega lui che ricordar si debbe pur quanto ha offeso in questo oltr’a ragione; che per negargli già, vi mancò poco
di non farlo morire in scuro loco.

33
Ma quanto a Malagigi le domande
di Rinaldo importune più pareano,
tanto, che l’amor suo fosse più grande, indizio manifesto gli faceano.
I prieghi che con lui vani non spande, fan che subito immerge ne l’oceano
ogni memoria de la ingiuria vecchia, e che a dargli soccorso s’apparecchia.

34
Termine tolse alla risposta, e spene gli diè, che favorevol gli saria,
e che gli saprà dir la via che tiene Angelica, o sia in Francia o dove sia.
E quindi Malagigi al luogo viene
ove i demoni scongiurar solia,
ch’era fra monti inaccessibil grotta: apre il libro, e li spirti chiama in frotta.

35
Poi ne sceglie un che de’ casi d’amore avea notizia, e da lui saper volle,
come sia che Rinaldo ch’avea il core dianzi sì duro, or l’abbia tanto molle:
e di quelle due fonti ode il tenore, di che l’una dà il fuoco, e l’altra il tolle; e al mal che l’una fa, nulla soccorre,
se non l’altra acqua che contraria corre.

36
Ed ode come avendo già di quella
che l’amor caccia, beuto Rinaldo,
ai lunghi prieghi d’Angelica bella
si dimostrò così ostinato e saldo;
e che poi giunto per sua iniqua stella a ber ne l’altra l’amoroso caldo,
tornò ad amar, per forza di quelle acque, lei che pur dianzi oltr’al dover gli spiacque.

37
Da iniqua stella e fier destin fu giunto a ber la fiamma in quel ghiacciato rivo; perché Angelica venne quasi a un punto
a ber ne l’altro di dolcezza privo, che d’ogni amor le lasciò il cor sì emunto, ch’indi ebbe lui più che le serpi a schivo: egli amò lei, e l’amor giunse al segno
in ch’era già di lei l’odio e lo sdegno.

38
Del caso strano di Rinaldo a pieno
fu Malagigi dal demonio istrutto,
che gli narrò d’Angelica non meno,
ch’a un giovine african si donò in tutto; e come poi lasciato avea il terreno
tutto d’Europa, e per l’instabil flutto verso India sciolto avea dai liti ispani su l’audaci galee de’ Catallani.

39
Poi che venne il cugin per la risposta, molto gli disuase Malagigi
di più Angelica amar, che s’era posta d’un vilissimo barbaro ai servigi;
ed ora sì da Francia si discosta,
che mal seguir se ne potria i vestigi: ch’era oggimai più là ch’a mezza strada, per andar con Medoro in sua contrada.

40
La partita d’Angelica non molto
sarebbe grave all’animoso amante;
né pur gli avria turbato il sonno, o tolto il pensier di tornarsene in Levante:
ma sentendo ch’avea del suo amor colto un Saracino le primizie inante,
tal passione e tal cordoglio sente, che non fu in vita sua, mai, più dolente.

41
Non ha poter d’una risposta sola;
triema il cor dentro, e trieman fuor le labbia; non può la lingua disnodar parola;
la bocca ha amara, e par che tosco v’abbia. Da Malagigi subito s’invola;
e come il caccia la gelosa rabbia,
dopo gran pianto e gran ramaricarsi, verso Levante fa pensier tornarsi.

42
Chiede licenza al figlio di Pipino: e trova scusa che ‘l destrier Baiardo,
che ne mena Gradasso saracino
contra il dover di cavallier gagliardo, lo muove per suo onore a quel camino,
acciò che vieti al Serican bugiardo di mai vantarsi che con spada o lancia
l’abbia levato a un paladin di Francia.

43
Lasciollo andar con sua licenza Carlo, ben che ne fu con tutta Francia mesto;
ma finalmente non seppe negarlo,
tanto gli parve il desiderio onesto. Vuol Dudon, vuol Guidone accompagnarlo;
ma lo niega Rinaldo a quello e a questo. Lascia Parigi, e se ne va via solo,
pien di sospiri e d’amoroso duolo.

44
Sempre ha in memoria, e mai non se gli tolle, ch’averla mille volte avea potuto,
e mille volte avea ostinato e folle di sì rara beltà fatto rifiuto;
e di tanto piacer ch’aver non volle, sì bello e sì buon tempo era perduto:
ed ora eleggerebbe un giorno corto
averne solo, e rimaner poi morto.

45
Ha sempre in mente, e mai non se ne parte, come esser puote ch’un povero fante
abbia del cor di lei spinto da parte merito e amor d’ogni altro primo amante. Con tal pensier che ‘l cor gli straccia e parte, Rinaldo se ne va verso Levante;
e dritto al Reno e a Basilea si tiene, fin che d’Ardenna alla gran selva viene.

46
Poi che fu dentro a molte miglia andato il paladin pel bosco aventuroso,
da ville e da castella allontanato, ove aspro era più il luogo e periglioso, tutto in un tratto vide il ciel turbato, sparito il sol tra nuvoli nascoso,
ed uscir fuor d’una caverna oscura
un strano mostro in feminil figura.

47
Mill’occhi in capo avea senza palpèbre; non può serrarli, e non credo che dorma: non men che gli occhi, avea l’orecchie crebre; avea in loco de crin serpi a gran torma. Fuor de le diaboliche tenèbre
nel mondo uscì la spaventevol forma. Un fiero e maggior serpe ha per la coda, che pel petto si gira e che l’annoda.

48
Quel ch’a Rinaldo in mille e mille imprese più non avvenne mai, quivi gli avviene;
che come vede il mostro ch’all’offese se gli apparecchia, e ch’a trovar lo viene, tanta paura, quanta mai non scese
in altri forse, gli entra ne le vene: ma pur l’usato ardir simula e finge,
e con trepida man la spada stringe.

49
S’acconcia il mostro in guisa al fiero assalto, che si può dir che sia mastro di guerra: vibra il serpente venenoso in alto,
e poi contra Rinaldo si disserra;
di qua di là gli vien sopra a gran salto. Rinaldo contra lui vaneggia ed erra:
colpi a dritto e a riverso tira assai, ma non ne tira alcun che fera mai.

50
Il mostro al petto il serpe ora gli appicca, che sotto l’arme e sin nel cor l’agghiaccia; ora per la visiera gliele ficca,
e fa ch’erra pel collo e per la faccia. Rinaldo da l’impresa si dispicca,
e quanto può con sproni il destrier caccia: ma la Furia infernal già non par zoppa,
che spicca un salto, e gli è subito in groppa.

51
Vada al traverso, al dritto, ove si voglia, sempre ha con lui la maledetta peste;
né sa modo trovar, che se ne scioglia, ben che ‘l destrier di calcitrar non reste. Triema a Rinaldo il cor come una foglia: non ch’altrimente il serpe lo moleste;
ma tanto orror ne sente e tanto schivo, che stride e geme, e duolsi ch’egli è vivo.

52
Nel più tristo sentier, nel peggior calle scorrendo va, nel più intricato bosco,
ove ha più asprezza il balzo, ove la valle è più spinosa, ov’è l’aer più fosco,
così sperando torsi da le spalle
quel brutto, abominoso, orrido tosco; e ne saria mal capitato forse,
se tosto non giungea chi lo soccorse.

53
Ma lo soccorse a tempo un cavalliero di bello armato e lucido metallo,
che porta un giogo rotto per cimiero, di rosse fiamme ha pien lo scudo giallo; così trapunto il suo vestire altiero,
così la sopravesta del cavallo:
la lancia ha in pugno, e la spada al suo loco, e la mazza all’arcion, che getta foco.

54
Piena d’un foco eterno è quella mazza, che senza consumarsi ognora avampa:
né per buon scudo o tempra di corazza o per grossezza d’elmo se ne scampa.
Dunque si debbe il cavallier far piazza, giri ove vuol l’inestinguibil lampa:
né manco bisognava al guerrier nostro, per levarlo di man del crudel mostro.

55
E come cavallier d’animo saldo,
ove ha udito il rumor, corre e galoppa, tanto che vede il mostro che Rinaldo
col brutto serpe in mille nodi agroppa, e sentir fagli a un tempo freddo e caldo; che non ha via di torlosi di groppa.
Va il cavalliero, e fere il mostro al fianco, e lo fa trabboccar dal lato manco.

56
Ma quello è a pena in terra che si rizza, e il lungo serpe intorno aggira e vibra. Quest’altro più con l’asta non l’attizza; ma di farla col fuoco si delibra.
La mazza impugna, e dove il serpe guizza, spessi come tempesta i colpi libra;
né lascia tempo a quel brutto animale, che possa farne un solo o bene o male:

57
e mentre a dietro il caccia o tiene a bada, e lo percuote, e vendica mille onte,
consiglia il paladin che se ne vada per quella via che s’alza verso il monte. Quel s’appiglia al consiglio ed alla strada; e senza dietro mai volger la fronte,
non cessa, che di vista se gli tolle, ben che molto aspro era a salir quel colle.

58
Il cavallier, poi ch’alla scura buca fece tornare il mostro da l’inferno,
ove rode se stesso e si manuca,
e da mille occhi versa il pianto eterno; per esser di Rinaldo guida e duca
gli salì dietro, e sul giogo superno gli fu alle spalle, e si mise con lui
per trarlo fuor de’ luoghi oscuri e bui.

59
Come Rinaldo il vide ritornato,
gli disse che gli avea grazia infinita, e ch’era debitore in ogni lato
di porre a beneficio suo la vita.
Poi lo domanda come sia nomato,
acciò dir sappia chi gli ha dato aita, e tra guerrieri possa e inanzi a Carlo
de l’alta sua bontà sempre esaltarlo.

60
Rispose il cavallier: – Non ti rincresca se ‘l nome mio scoprir non ti vogli’ora: ben tel dirò prima ch’un passo cresca
l’ombra; che ci sarà poca dimora. – Trovaro, andando insieme, un’acqua fresca che col suo mormorio facea talora
pastori e viandanti al chiaro rio
venire, e berne l’amoroso oblio.

61
Signor, queste eran quelle gelide acque, quelle che spengon l’amoroso caldo;
di cui bevendo, ad Angelica nacque
l’odio ch’ebbe di poi sempre a Rinaldo. E s’ella un tempo a lui prima dispiacque, e se ne l’odio il ritrovò sì saldo,
non derivò, Signor, la causa altronde, se non d’aver beuto di queste onde.

62
Il cavallier che con Rinaldo viene, come si vede inanzi al chiaro rivo,
caldo per la fatica il destrier tiene, e dice: – Il posar qui non fia nocivo. – – Non fia (disse Rinaldo) se non bene;
ch’oltre che prema il mezzogiorno estivo, m’ha così il brutto mostro travagliato,
che ‘l riposar mi fia commodo e grato. –

63
L’un e l’altro smontò del suo cavallo, e pascer lo lasciò per la foresta;
e nel fiorito verde a rosso e a giallo ambi si trasson l’elmo de la testa.
Corse Rinaldo al liquido cristallo, spinto da caldo e da sete molesta,
e cacciò, a un sorso del freddo liquore, dal petto ardente e la sete e l’amore.

64
Quando lo vide l’altro cavalliero
la bocca sollevar de l’acqua molle, e ritrarne pentito ogni pensiero
di quel desir ch’ebbe d’amor sì folle; si levò ritto, e con sembiante altiero
gli disse quel che dianzi dir non volle: – Sappi, Rinaldo, il nome mio è lo Sdegno, venuto sol per sciorti il giogo indegno. –

65
Così dicendo, subito gli sparve,
e sparve insieme il suo destrier con lui. Questo a Rinaldo un gran miracol parve;
s’aggirò intorno, e disse: – Ove è costui? – Stimar non sa se sian magiche larve,
che Malagigi un de’ ministri sui
gli abbia mandato a romper la catena che lungamente l’ha tenuto in pena:

66
o pur che Dio da l’alta ierarchia
gli abbia per ineffabil sua bontade mandato, come già mandò a Tobia,
un angelo a levar di cecitade.
Ma buono o rio demonio, o quel che sia, che gli ha renduta la sua libertade,
ringrazia e loda; e da lui sol conosce che sano ha il cor da l’amorose angosce.

67
Gli fu nel primier odio ritornata
Angelica; e gli parve troppo indegna d’esser, non che sì lungi seguitata,
ma che per lei pur mezza lega vegna. Per Baiardo riaver tutta fiata
verso India in Sericana andar disegna, sì perché l’onor suo lo stringe a farlo, sì per averne già parlato a Carlo.

68
Giunse il giorno seguente a Basilea, ove la nuova era venuta inante,
che ‘l conte Orlando aver pugna dovea contra Gradasso e contro il re Agramante. Né questo per aviso si sapea,
ch’avesse dato il cavallier d’Anglante; ma di Sicilia in fretta venut’era
chi la novella v’apportò per vera.

69
Rinaldo vuol trovarsi con Orlando
alla battaglia, e se ne vede lunge. Di dieci in dieci miglia va mutando
cavalli e guide, e corre e sferza e punge. Passa il Reno a Costanza, e in su volando, traversa l’Alpe, ed in Italia giunge.
Verona a dietro, a dietro Mantua lassa; sul Po si trova, e con gran fretta il passa.

70
Già s’inchinava il sol molto alla sera, e già apparia nel ciel la prima stella,
quando Rinaldo in ripa alla riviera stando in pensier s’avea da mutar sella, o tanto soggiornar, che l’aria nera
fuggisse inanzi all’altra aurora bella, venir si vede un cavalliero inanti
cortese ne l’aspetto e nei sembianti.

71
Costui, dopo il saluto, con bel modo gli domandò s’aggiunto a moglie fosse.
Disse Rinaldo: – Io son nel giugal nodo: – ma di tal domandar maravigliosse.
Soggiunse quel: – Che sia così, ne godo. – Poi, per chiarir perché tal detto mosse, disse: – Io ti priego che tu sia contento ch’io ti dia questa sera alloggiamento;

72
che ti farò veder cosa che debbe
ben volentieri veder chi ha moglie a lato. – Rinaldo, sì perché posar vorrebbe,
ormai di correr tanto affaticato;
sì perché di vedere e d’udire ebbe
sempre aventure un desiderio innato; accettò l’offerir del cavalliero,
e dietro gli pigliò nuovo sentiero.

73
Un tratto d’arco fuor di strada usciro, e inanzi un gran palazzo si trovaro,
onde scudieri in gran frotta veniro con torchi accesi, e fero intorno chiaro. Entrò Rinaldo, e voltò gli occhi in giro, e vide loco il qual si vede raro,
di gran fabrica e bella e bene intesa; né a privato uom convenia tanta spesa.

74
Di serpentin, di porfido le dure
pietre fan de la porta il ricco volto. Quel che chiude è di bronzo, con figure
che sembrano spirar, muovere il volto. Sotto un arco poi s’entra, ove misture
di bel musaico ingannan l’occhio molto. Quindi si va in un quadro ch’ogni faccia de le sue logge ha lunga cento braccia.

75
La sua porta ha per sé ciascuna loggia, e tra la porta e sé ciascuna ha un arco: d’ampiezza pari son, ma varia foggia
fe’ d’ornamenti il mastro lor non parco. Da ciascuno arco s’entra, ove si poggia
sì facil, ch’un somier vi può gir carco. Un altro arco di su trova ogni scala;
e s’entra per ogni arco in una sala.

76
Gli archi di sopra escono fuor del segno tanto, che fan coperchio alle gran porte; e ciascun due colonne ha per sostegno,
altre di bronzo, altre di pietra forte. Lungo sarà, se tutti vi disegno
gli ornati alloggiamenti de la corte; e oltr’a quel ch’appar, quanti agi sotto la cava terra il mastro avea ridotto.

77
L’alte colonne e i capitelli d’oro, da che i gemmati palchi eran suffulti,
i peregrini marmi che vi foro
da dotta mano in varie forme sculti, pitture e getti, e tant’altro lavoro
(ben che la notte agli occhi il più ne occulti), mostran che non bastaro a tanta mole
di duo re insieme le ricchezze sole.

78
Sopra gli altri ornamenti ricchi e belli, ch’erano assai ne la gioconda stanza,
v’era una fonte che per più ruscelli spargea freschissime acque in abondanza. Poste le mense avean quivi i donzelli;
ch’era nel mezzo per ugual distanza: vedeva, e parimente veduta era
da quattro porte de la casa altiera.

79
Fatta da mastro diligente e dotto
la fonte era con molta e suttil opra, di loggia a guisa, o padiglion ch’in otto facce distinto, intorno adombri e cuopra. Un ciel d’oro, che tutto era di sotto
colorito di smalto, le sta sopra;
ed otto statue son di marmo bianco, che sostengon quel ciel col braccio manco.

80
Ne la man destra il corno d’Amaltea sculto aveva lor l’ingenioso mastro,
onde con grato murmure cadea
l’acqua di fuore in vaso d’alabastro; ed a sembianza di gran donna avea
ridutto con grande arte ogni pilastro. Son d’abito e di faccia differente,
ma grazia hanno e beltà tutte ugualmente.

81
Fermava il piè ciascuno di questi segni sopra due belle imagini più basse,
che con la bocca aperta facean segni che ‘l canto e l’armonia lor dilettasse; e quell’atto in che son, par che disegni che l’opra e studio lor tutto lodasse
le belle donne che sugli omeri hanno, se fosser quei di cu’ in sembianza stanno.

82
I simulacri inferiori in mano
avean lunghe ed amplissime scritture, ove facean con molta laude piano
i nomi de le più degne figure;
e mostravano ancor poco lontano
i propri loro in note non oscure.
Mirò Rinaldo a lume di doppieri
le donne ad una ad una e i cavallieri.

83
La prima iscrizion ch’agli occhi occorre, con lungo onor Lucrezia Borgia noma,
la cui bellezza ed onestà preporre
debbe all’antiqua la sua patria Roma. I duo che voluto han sopra sé torre
tanto eccellente ed onorata soma,
noma lo scritto, Antonio Tebaldeo,
Ercole Strozza: un Lino ed uno Orfeo.

84
Non men gioconda statua né men bella si vede appresso, e la scrittura dice:
– Ecco la figlia d’Ercole, Issabella, per cui Ferrara si terrà felice
via più, perché in lei nata sarà quella, che d’altro ben che prospera e fautrice
e benigna Fortuna dar le deve,
volgendo gli anni nel suo corso lieve. –

85
I duo che mostran disiosi affetti
che la gloria di lei sempre risuone, Gian Iacobi ugualmente erano detti,
l’uno Calandra, e l’altro Bardelone. Nel terzo e quarto loco ove per stretti
rivi l’acqua esce fuor del padiglione, due donne son, che patria, stirpe, onore hanno di par, di par beltà e valore.

86
Elissabetta l’una e Leonora
nominata era l’altra: e fia, per quanto narrava il marmo sculto, d’esse ancora
sì gloriosa la terra di Manto,
che di Vergilio, che tanto l’onora, più che di queste, non si darà vanto.
Avea la prima a piè del sacro lembo Iacobo Sadoletto e Pietro Bembo.

87
Uno elegante Castiglione, e un culto Muzio Arelio de l’altra eran sostegni.
Di questi nomi era il bel marmo sculto, ignoti allora, or sì famosi e degni.
Veggon poi quella a cui dal cielo indulto tanta virtù sarà, quanta ne regni,
o mai regnata in alcun tempo sia,
versata da Fortuna or buona or ria.

88
Lo scritto d’oro esser costei dichiara Lucrezia Bentivoglia; e fra le lode
pone di lei, che ‘l duca di Ferrara d’esserle padre si rallegra e gode.
Di costei canta con soave e chiara
voce un Camil che ‘l Reno e Felsina ode con tanta attenzion, tanto stupore,
con quanta Anfriso udì già il suo pastore;

89
ed un per cui la terra, ove l’Isauro le sue dolci acque insala in maggior vase, nominata sarà da l’Indo al Mauro,
e da l’austrine all’iperboree case, via più che per pesare il romano auro,
di che perpetuo nome le rimase;
Guido Postumo, a cui doppia corona
Pallade quinci, e quindi Febo dona.

90
L’altra che segue in ordine, è Diana. – Non guardar (dice il marmo scritto) ch’ella sia altiera in vista; che nel core umana non sarà però men ch’in viso bella. –
Il dotto Celio Calcagnin lontana
farà la gloria e ‘l bel nome di quella nel regno di Monese, in quel di Iuba,
in India e Spagna udir con chiara tuba:

91
ed un Marco Cavallo, che tal fonte
farà di poesia nascer d’Ancona,
qual fe’ il cavallo alato uscir del monte, non so se di Parnasso o d’Elicona.
Beatrice appresso a questo alza la fronte, di cui lo scritto suo così ragiona:
– Beatrice bea, vivendo, il suo consorte, e lo lascia infelice alla sua morte;

92
anzi tutta l’Italia, che con lei
fia triunfante, e senza lei, captiva. – Un signor di Coreggio di costei
con alto stil par che cantando scriva, e Timoteo, l’onor de’ Bendedei:
ambi faran tra l’una e l’altra riva fermare al suon de’ lor soavi plettri
il fiume ove sudar gli antiqui elettri.

93
Tra questo loco e quel de la colonna che fu sculpita in Borgia, com’è detto,
formata in alabastro una gran donna era di tanto e sì sublime aspetto,
che sotto puro velo, in nera gonna, senza oro e gemme, in un vestire schietto, tra le più adorne non parea men bella,
che sia tra l’altre la ciprigna stella.

94
Non si potea, ben contemplando fiso, conoscer se più grazia o più beltade,
o maggior maestà fosse nel viso,
o più indizio d’ingegno o d’onestade. – Chi vorrà di costei (dicea l’inciso
marmo) parlar, quanto parlar n’accade, ben torrà impresa più d’ogn’altra degna; ma non però ch’a fin mai se ne vegna. –

95
Dolce quantunque e pien di grazia tanto fosse il suo bello e ben formato segno,
parea sdegnarsi che con umil canto
ardisse lei lodar sì rozzo ingegno, com’era quel che sol, senz’altri a canto (non so perché), le fu fatto sostegno.
Di tutto ‘l resto erano i nomi sculti; sol questi due l’artefice avea occulti.

96
Fanno le statue in mezzo un luogo tondo, che ‘l pavimento asciutto ha di corallo, di freddo soavissimo giocondo,
che rendea il puro e liquido cristallo, che di fuor cade in un canal fecondo,
che ‘l prato verde, azzurro, bianco e giallo rigando, scorre per vari ruscelli,
grato alle morbide erbe e agli arbuscelli.

97
Col cortese oste ragionando stava
il paladino a mensa; e spesso spesso, senza più differir, gli ricordava
che gli attenesse quanto avea promesso: e ad or ad or mirandolo, osservava
ch’avea di grande affanno il core oppresso; che non può star momento che non abbia
un cocente sospiro in su le labbia.

98
Spesso la voce dal disio cacciata
viene a Rinaldo sin presso alla bocca per domandarlo; e quivi, raffrenata
di cortese modestia, fuor non scocca. Ora essendo la cena terminata,
ecco un donzello a chi l’ufficio tocca, pon su la mensa un bel nappo d’or fino,
di fuor di gemme, e dentro pien di vino.

99
Il signor de la casa allora alquanto sorridendo, a Rinaldo levò il viso;
ma chi ben lo notava, più di pianto parea ch’avesse voglia che di riso.
Disse: – Ora a quel che mi ricordi tanto, che tempo sia di sodisfar m’è aviso;
mostrarti un paragon ch’esser de’ grato di vedere a ciascun c’ha moglie allato.

100
Ciascun marito, a mio giudizio, deve sempre spiar se la sua donna l’ama;
saper s’onore o biasmo ne riceve,
se per lei bestia, o se pur uom si chiama. L’incarco de le corna è lo più lieve
ch’al mondo sia, se ben l’uom tanto infama: lo vede quasi tutta l’altra gente;
e chi l’ha in capo, mai non se lo sente.

101
Se tu sai che fedel la moglie sia,
hai di più amarla e d’onorar ragione, che non ha quel che la conosce ria,
o quel che ne sta in dubbio e in passione. Di molte n’hanno a torto gelosia
i lor mariti, che son caste e buone: molti di molte anco sicuri stanno,
che con le corna in capo se ne vanno.

102
Se vuoi saper se la tua sia pudica
(come io credo che credi, e creder déi; ch’altrimente far credere è fatica,
se chiaro già per prova non ne sei), tu per te stesso, senza ch’altri il dica, te n’avvedrai, s’in questo vaso bei;
che per altra cagion non è qui messo, che per mostrarti quanto io t’ho promesso.

103
Se béi con questo, vedrai grande effetto; che se porti il cimier di Cornovaglia,
il vin ti spargerai tutto sul petto, né gocciola sarà ch’in bocca saglia:
ma s’hai moglie fedel, tu berai netto. Or di veder tua sorte ti travaglia. –
Così dicendo, per mirar tien gli occhi, ch’in seno il vin Rinaldo si trabbocchi.

104
Quasi Rinaldo di cercar suaso
quel che poi ritrovar non vorria forse, messa la mano inanzi, e preso il vaso,
fu presso di volere in prova porse: poi, quanto fosse periglioso il caso
a porvi i labri, col pensier discorse. Ma lasciate, Signor, ch’io mi ripose;
poi dirò quel che ‘l paladin rispose.

CANTO QUARANTATREESIMO

1
O esecrabile Avarizia, o ingorda
fame d’avere, io non mi maraviglio
ch’ad alma vile e d’altre macchie lorda, sì facilmente dar possi di piglio;
ma che meni legato in una corda,
e che tu impiaghi del medesmo artiglio alcun, che per altezza era d’ingegno,
se te schivar potea, d’ogni onor degno.

2
Alcun la terra e ‘l mare e ‘l ciel misura, e render sa tutte le cause a pieno
d’ogni opra, d’ogni effetto di Natura, e poggia sì ch’a Dio riguarda in seno;
e non può aver più ferma e maggior cura, morso dal tuo mortifero veleno,
ch’unir tesoro: e questo sol gli preme, e ponvi ogni salute, ogni sua speme.

3
Rompe eserciti alcuno, e ne le porte si vede entrar di bellicose terre,
ed esser primo a porre il petto forte, ultimo a trarre, in perigliose guerre;
e non può riparar che sino a morte
tu nel tuo cieco carcere nol serre. Altri d’altre arti e d’altri studi industri, oscuri fai, che sarian chiari e illustri.

4
Che d’alcune dirò belle e gran donne ch’a bellezza, a virtù de fidi amanti,
a lunga servitù, più che colonne
io veggo dure, immobili e costanti? Veggo venir poi l’Avarizia, e ponne
far sì, che par che subito le incanti: in un dì, senza amor (chi fia che ‘l creda?) a un vecchio, a un brutto, a un mostro le dà in preda.

5
Non è senza cagion s’io me ne doglio: intendami chi può, che m’intend’io.
Né però di proposito mi toglio,
né la materia del mio canto oblio;
ma non più a quel c’ho detto, adattar voglio, ch’a quel ch’io v’ho da dire, il parlar mio. Or torniamo a contar del paladino
ch’ad assaggiare il vaso fu vicino.

6
Io vi dicea ch’alquanto pensar volle, prima ch’ai labri il vaso s’appressasse. Pensò, e poi disse: – Ben sarebbe folle
chi quel che non vorria trovar, cercasse. Mia donna è donna, ed ogni donna è molle: lasciàn star mia credenza come stasse.
Sin qui m’ha il creder mio giovato, e giova: che poss’io megliorar per farne prova?

7
Potria poco giovare e nuocer molto; che ‘l tentar qualche volta Idio disdegna. Non so s’in questo io mi sia saggio o stolto; ma non vo’ più saper, che mi convegna.
Or questo vin dinanzi mi sia tolto: sete non n’ho, né vo’ che me ne vegna;
che tal certezza ha Dio più proibita, ch’al primo padre l’arbor de la vita.

8
Che come Adam, poi che gustò del pomo che Dio con propria bocca gl’interdisse, da la letizia al pianto fece un tomo,
onde in miseria poi sempre s’afflisse; così, se de la moglie sua vuol l’uomo
tutto saper quanto ella fece e disse, cade de l’allegrezze in pianti e in guai, onde non può più rilevarsi mai. –

9
Così dicendo il buon Rinaldo, e intanto respingendo da sé l’odiato vase,
vide abondare un gran rivo di pianto dagli occhi del signor di quelle case,
che disse, poi che racchetossi alquanto: – Sia maledetto chi mi persuase
ch’io facesse la prova, ohimè! di sorte, che mi levò la dolce mia consorte.

10
Perché non ti conobbi già dieci anni, sì che io mi fossi consigliato teco,
prima che cominciassero gli affanni, e ‘l lungo pianto onde io son quasi cieco? Ma vo’ levarti da la scena i panni;
che ‘l mio mal vegghi, e te ne dogli meco: e ti dirò il principio e l’argumento
del mio non comparabile tormento.

11
Qua su lasciasti una città vicina,
a cui fa intorno un chiaro fiume laco, che poi si stende e in questo Po declina, e l’origine sua vien di Benaco.
Fu fatta la città, quando a ruina
le mura andar de l’agenoreo draco.
Quivi nacque io di stirpe assai gentile, ma in pover tetto e in facultade umile.

12
Se Fortuna di me non ebbe cura
sì che mi desse al nascer mio ricchezza, al diffetto di lei supplì Natura,
che sopra ogni mio ugual mi diè bellezza. Donne e donzelle già di mia figura
arder più d’una vidi in giovanezza; ch’io ci seppi accoppiar cortesi modi;
ben che stia mal che l’uom se stesso lodi.

13
Ne la nostra cittade era un uom saggio, di tutte l’arti oltre ogni creder dotto, che quando chiuse gli occhi al febeo raggio, contava gli anni suoi cento e ventotto.
Visse tutta sua età solo e selvaggio, se non l’estrema; che d’Amor condotto,
con premio ottenne una matrona bella, e n’ebbe di nascosto una cittella.

14
E per vietar che simil la figliuola alla matre non sia, che per mercede
vendé sua castità che valea sola
più che quanto oro al mondo si possiede, fuor del commercio popular la invola;
ed ove più solingo il luogo vede,
questo amplo e bel palagio e ricco tanto fece fare a’ demoni per incanto.

15
A vecchie donne e caste fe’ nutrire la figlia qui, ch’in gran beltà poi venne; né che potesse altr’uom veder, né udire
pur ragionarne in quella età, sostenne. E perch’avesse esempio da seguire,
ogni pudica donna che mai tenne
contra illicito amor chiuse le sbarre, ci fe’ d’intaglio o di color ritrarre:

16
non quelle sol che di virtude amiche hanno sì il mondo all’età prisca adorno; di quai la fama per l’istorie antiche
non è per veder mai l’ultimo giorno: ma nel futuro ancora altre pudiche
che faran bella Italia d’ogn’intorno, ci fe’ ritrarre in lor fattezze conte,
come otto che ne vedi a questa fonte.

17
Poi che la figlia al vecchio par matura sì, che ne possa l’uom cogliere i frutti; o fosse mia disgrazia o mia aventura,
eletto fui degno di lei fra tutti.
I lati campi oltre alle belle mura, non meno i pescarecci, che gli asciutti, che ci son d’ogn’intorno a venti miglia, mi consegnò per dote de la figlia.

18
Ella era bella e costumata tanto,
che più desiderar non si potea.
Di bei trapunti e di riccami, quanto mai ne sapesse Pallade, sapea.
Vedila andare, odine il suono e ‘l canto: celeste e non mortal cosa parea.
E in modo all’arti liberali attese, che, quanto il padre, o poco men n’intese.

19
Con grande ingegno, e non minor bellezza che fatta l’avria amabil fin ai sassi,
era giunto un amore, una dolcezza,
che par ch’a rimembrarne il cor mi passi. Non aveva più piacer né più vaghezza,
che d’esser meco ov’io mi stessi o andassi. Senza aver lite mai stemmo gran pezzo:
l’avemmo poi, per colpa mia, da sezzo.

20
Morto il suocero mio dopo cinque anni ch’io sottoposi il collo al giugal nodo, non stero molto a cominciar gli affanni
ch’io sento ancora, e ti dirò in che modo. Mentre mi rinchiudea tutto coi vanni
l’amor di questa mia che sì ti lodo, una femina nobil del paese,
quanto accender si può, di me s’accese.

21
Ella sapea d’incanti e di malie
quel che saper ne possa alcuna maga: rendea la notte chiara, oscuro il die
fermava il sol, facea la terra vaga. Non potea trar però le voglie mie,
che le sanassin l’amorosa piaga
col rimedio che dar non le potria
senza alta ingiuria de la donna mia.

22
Non perché fosse assai gentile e bella, né perché sapess’io che sì me amassi,
né per gran don, né per promesse ch’ella mi fêsse molte, e di continuo instassi,
ottener poté mai ch’una fiammella,
per darla a lei, del primo amor levassi; ch’a dietro ne traea tutte mie voglie
il conoscermi fida la mia moglie.

23
La speme, la credenza, la certezza
che de la fede di mia moglie avea,
m’avria fatto sprezzar quanta bellezza avesse mai la giovane ledea,
o quanto offerto mai senno e ricchezza fu al gran pastor de la montagna Idea.
Ma le repulse mie non valean tanto, che potesson levarmela da canto.

24
Un dì che mi trovò fuor del palagio la maga, che nomata era Melissa,
e mi poté parlare a suo grande agio, modo trovò da por mia pace in rissa,
e con lo spron di gelosia malvagio
cacciar del cor la fé che v’era fissa. Comincia a comendar la intenzion mia,
ch’io sia fedele a chi fedel mi sia.

25
– Ma che ti sia fedel, tu non puoi dire, prima che di sua fé prova non vedi.
S’ella non falle, e che potria fallire, che sia fedel, che sia pudica credi.
Ma se mai senza te non la lasci ire, se mai vedere altr’uom non le concedi,
onde hai questa baldanza, che tu dica e mi vogli affermar che sia pudica?

26
Scostati un poco, scostati da casa; fa che le cittadi odano e i villaggi,
che tu sia andato, e ch’ella sia rimasa; agli amanti dà commodo e ai messaggi.
S’a prieghi, a doni non fia persuasa di fare al letto maritale oltraggi,
e che, facendol, creda che si cele, allora dir potrai che sia fedele. –

27
Con tal parole e simili non cessa
l’incantatrice, fin che mi dispone
che de la donna mia la fede espressa veder voglia, e provare a paragone.
– Ora pogniamo (le soggiungo) ch’essa sia qual non posso averne opinione:
come potrò di lei poi farmi certo
che sia di punizion degna o di merto? –

28
Disse Melissa: – Io ti darò un vasello fatto da ber, di virtù rara e strana;
qual già per fare accorto il suo fratello del fallo di Genevra, fe’ Morgana.
Chi la moglie ha pudica, bee con quello: ma non vi può già ber chi l’ha puttana;
che ‘l vin, quando lo crede in bocca porre, tutto si sparge, e fuor nel petto scorre.

29
Prima che parti, ne farai la prova, e per lo creder mio tu berai netto;
che credo ch’ancor netta si ritrova la moglie tua: pur ne vedrai l’effetto.
Ma s’al ritorno esperienza nuova
poi ne farai, non t’assicuro il petto: che se tu non lo immolli, e netto bèi,
d’ogni marito il più felice sei. –

30
L’offerta accetto; il vaso ella mi dona: ne fo la prova, e mi succede a punto;
che, com’era il disio, pudica e buona la cara moglie mia trovo a quel punto.
Dice Melissa: – Un poco l’abbandona; per un mese o per duo stanne disgiunto:
poi torna; poi di nuovo il vaso tolli; prova se bevi, o pur se ‘l petto immolli. –

31
A me duro parea pur di partire;
non perché di sua fe’ sì dubitassi, come ch’io non potea duo dì patire,
né un’ora pur, che senza me restassi. Disse Melissa: – Io ti farò venire
a conoscere il ver con altri passi. Vo’ che muti il parlare e i vestimenti,
e sotto viso altrui te l’appresenti. –

32
Signor, qui presso una città difende il Po fra minacciose e fiere corna;
la cui iuridizion di qui si stende
fin dove il mar fugge dal lito e torna. Cede d’antiquità, ma ben contende
con le vicine in esser ricca e adorna. Le reliquie troiane la fondaro,
che dal flagello d’Attila camparo.

33
Astringe e lenta a questa terra il morso un cavallier giovene, ricco e bello,
che dietro un giorno a un suo falcone iscorso, essendo capitato entro il mio ostello,
vide la donna, e sì nel primo occorso gli piacque, che nel cor portò il suggello; né cessò molte pratiche far poi,
per inchinarla ai desideri suoi.

34
Ella gli fece dar tante repulse,
che più tentarla al fine egli non volse; ma la beltà di lei, ch’Amor vi sculse,
di memoria però non se gli tolse.
Tanto Melissa allosingommi e mulse, ch’a tor la forma di colui mi volse;
e mi mutò (né so ben dirti come)
di faccia, di parlar, d’occhi e di chiome.

35
Già con mia moglie avendo simulato
d’esser partito e gitone in Levante, nel giovene amator così mutato
l’andar, la voce, l’abito e ‘l sembiante, me ne ritorno, ed ho Melissa a lato,
che s’era trasformata, e parea un fante; e le più ricche gemme avea con lei,
che mai mandassin gl’Indi o gli Eritrei.

36
Io che l’uso sapea del mio palagio, entro sicuro e vien Melissa meco;
e madonna ritrovo a sì grande agio, che non ha né scudier né donna seco.
I miei prieghi le espongo, indi il malvagio stimulo inanzi del mal far le arreco:
i rubini, i diamanti e gli smeraldi, che mosso arebbon tutti i cor più saldi.

37
E le dico che poco è questo dono
verso quel che sperar da me dovea:
de la commodità poi le ragiono,
che, non v’essendo il suo marito, avea: e le ricordo che gran tempo sono
stato suo amante, com’ella sapea;
e che l’amar mio lei con tanta fede degno era avere al fin qualche mercede.

38
Turbossi nel principio ella non poco, divenne rossa, ed ascoltar non volle;
ma il veder fiammeggiar poi, come fuoco, le belle gemme, il duro cor fe’ molle:
e con parlar rispose breve e fioco, quel che la vita a rimembrar mi tolle;
che mi compiaceria, quando credesse ch’altra persona mai nol risapesse.

39
Fu tal risposta un venenato telo
di che me ne senti’ l’alma traffissa: per l’ossa andommi e per le vene un gelo; ne le fauci restò la voce fissa.
Levando allora del suo incanto il velo, ne la mia forma mi tornò Melissa.
Pensa di che color dovesse farsi,
ch’in tanto error da me vide trovarsi.

40
Divenimmo ambi di color di morte,
muti ambi, ambi restiàn con gli occhi bassi. Potei la lingua a pena aver sì forte,
e tanta voce a pena, ch’io gridassi: – Me tradiresti dunque tu, consorte,
quando tu avessi chi ‘l mio onor comprassi ? – Altra risposta darmi ella non puote,
che di rigar di lacrime le gote.

41
Ben la vergogna è assai, ma più lo sdegno ch’ella ha, da me veder farsi quella onta; e multiplica sì senza ritegno,
ch’in ira al fine e in crudele odio monta. Da me fuggirsi tosto fa disegno;
e ne l’ora che ‘l Sol del carro smonta, al fiume corre, e in una sua barchetta
si fa calar tutta la notte in fretta:

42
e la matina s’appresenta avante
al cavallier che l’avea un tempo amata, sotto il cui viso, sotto il cui sembiante fu contra l’onor mio da me tentata.
A lui che n’era stato ed era amante, creder si può che fu la giunta grata.
Quindi ella mi fe’ dir ch’io non sperassi che mai più fosse mia, né più m’amassi.

43
Ah lasso! da quel dì con lui dimora in gran piacere, e di me prende giuoco;
ed io del mal che procacciammi allora, ancor languisco, e non ritrovo loco.
Cresce il mal sempre, e giusto è ch’io ne muora; e resta omai da consumarci poco.
Ben credo che ‘l primo anno sarei morto, se non mi dava aiuto un sol conforto.

44
Il conforto ch’io prendo, è che di quanti per dieci anni mai fur sotto al mio tetto (ch’a tutti questo vaso ho messo inanti), non ne trovo un che non s’immolli il petto. Aver nel caso mio compagni tanti
mi dà fra tanto mal qualche diletto. Tu tra infiniti sol sei stato saggio,
che far negasti il periglioso saggio.

45
Il mio voler cercare oltre alla meta che de la donna sua cercar si deve,
fa che mai più trovare ora quieta
non può la vita mia, sia lunga o breve. Di ciò Melissa fu a principio lieta:
ma cessò tosto la sua gioia lieve;
ch’essendo causa del mio mal stata ella, io l’odiai sì, che non potea vedella.

46
Ella d’esser odiata impaziente
da me che dicea amar più che sua vita, ove donna restarne immantinente
creduto avea, che l’altra ne fosse ita; per non aver sua doglia sì presente,
non tardò molto a far di qui partita; e in modo abbandonò questo paese,
che dopo mai per me non se n’intese. –

47
Così narrava il mesto cavalliero:
e quando fine alla sua istoria pose, Rinaldo alquanto ste’ sopra pensiero,
da pietà vinto, e poi così rispose: – Mal consiglio di diè Melissa in vero,
che d’attizzar le vespe ti propose; e tu fusti a cercar poco avveduto
quel che tu avresti non trovar voluto.

48
Se d’avarizia la tua donna vinta
a voler fede romperti fu indutta,
non t’ammirar; né prima ella né quinta fu de le donne prese in sì gran lutta;
e mente via più salda ancora è spinta per minor prezzo a far cosa più brutta.
Quanti uomini odi tu, che già per oro han traditi padroni e amici loro?

49
Non dovevi assalir con sì fiere armi, se bramavi veder farle difesa.
Non sai tu, contra l’oro, che né i marmi né ‘l durissimo acciar sta alla contesa? Che più fallasti tu a tentarla parmi,
di lei che così tosto restò presa.
Se te altretanto avesse ella tentato, non so se tu più saldo fossi stato. –

50
Qui Rinaldo fe’ fine, e da la mensa levossi a un tempo, e domandò dormire;
che riposare un poco, e poi si pensa inanzi al dì d’un’ora o due partire.
Ha poco tempo, e ‘l poco c’ha, dispensa con gran misura, e invan nol lascia gire. Il signor di là dentro, a suo piacere,
disse, che si potea porre a giacere;

51
ch’apparecchiata era la stanza e ‘l letto: ma che se volea far per suo consiglio,
tutta notte dormir potria a diletto, e dormendo avanzarsi qualche miglio.
– Acconciar ti farò (disse) un legnetto, con che volando, e senz’alcun periglio
tutta notte dormendo vo’ che vada,
e una giornata avanzi de la strada. –

52
La proferta a Rinaldo accettar piacque, e molto ringraziò l’oste cortese:
poi senza indugio là, dove ne l’acque da’ naviganti era aspettato, scese.
Quivi a grande agio riposato giacque, mentre il corso del fiume il legno prese, che da sei remi spinto, lieve e snello
pel fiume andò, come per l’aria augello.

53
Così tosto come ebbe il capo chino, il cavallier di Francia adormentosse;
imposto avendo già, come vicino
giungea a Ferrara, che svegliato fosse. Restò Melara nel lito mancino;
nel lito destro Sermide restosse:
Figarolo e Stellata il legno passa, ove le corna il Po iracondo abbassa.

54
De le due corna il nocchier prese il destro, e lasciò andar verso Vinegia il manco;
passò il Bondeno: e già il color cilestro si vedea in oriente venir manco,
che votando di fior tutto il canestro, l’Aurora vi facea vermiglio e bianco;
quando, lontan scoprendo di Tealdo
ambe le rocche, il capo alzò Rinaldo.

55
– O città bene aventurosa (disse),
di cui già Malagigi, il mio cugino, contemplando le stelle erranti e fisse,
e costringendo alcun spirto indovino, nei secoli futuri mi predisse
(già ch’io facea con lui questo camino) ch’ancor la gloria tua salirà tanto,
ch’avrai di tutta Italia il pregio e ‘l vanto. –

56
Così dicendo, e pur tuttavia in fretta su quel battel che parea aver le penne,
scorrendo il re de’ fiumi, all’isoletta ch’alla cittade è più propinqua, venne:
e ben che fosse allora erma e negletta, pur s’allegrò di rivederla, e fenne
non poca festa; che sapea quanto ella, volgendo gli anni, saria ornata e bella.

57
Altra fiata che fe’ questa via,
udì da Malagigi, il qual seco era,
che settecento volte che si sia
girata col monton la quarta sfera,
questa la più ioconda isola fia
di quante cinga mar, stagno o riviera; sì che, veduta lei, non sarà ch’oda
dar più alla patria di Nausicaa loda.

58
Udì che di bei tetti posta inante
sarebbe a quella sì a Tiberio cara; che cederian l’Esperide alle piante
ch’avria il bel loco, d’ogni sorte rara; che tante spezie d’animali, quante
vi fien, né in mandra Circe ebbe né in hara; che v’avria con le Grazie e con Cupido
Venere stanza, e non più in Cipro o in Gnido:

59
e che sarebbe tal per studio e cura di chi al sapere ed al potere unita
la voglia avendo, d’argini e di mura avria sì ancor la sua città munita,
che contra tutto il mondo star sicura potria, senza chiamar di fuori aita:
e che d’Ercol figliuol, d’Ercol sarebbe padre il signor che questo e quel far debbe.

60
Così venìa Rinaldo ricordando
quel che già il suo cugin detto gli avea, de le future cose divinando,
che spesso conferir seco solea.
E tuttavia l’umil città mirando:
– Come esser può ch’ancor (seco dicea) debban così fiorir queste paludi
de tutti i liberali e degni studi?

61
e crescer abbia di sì piccol borgo
ampla cittade e di sì gran bellezza? e ciò ch’intorno è tutto stagno e gorgo, sien lieti e pieni campi di ricchezza?
Città, sin ora a riverire assorgo
l’amor, la cortesia, la gentilezza
de’ tuoi signori, e gli onorati pregi dei cavallier, dei cittadini egregi.

62
L’ineffabil bontà del Redentore,
de’ tuoi principi il senno e la iustizia, sempre con pace, sempre con amore
ti tenga in abondanza ed in letizia; e ti difenda contra ogni furore
de’ tuoi nimici, e scuopra lor malizia: del tuo contento ogni vicino arrabbi,
più tosto che tu invidia ad alcuno abbi. –

63
Mentre Rinaldo così parla, fende
con tanta fretta il suttil legno l’onde, che con maggiore a logoro non scende
falcon ch’al grido del padron risponde. Del destro corno il destro ramo prende
quindi il nocchiero, e mura e tetti asconde: San Georgio a dietro, a dietro s’allontana la torre e de la Fossa e di Gaibana.

64
Rinaldo, come accade ch’un pensiero un altro dietro, e quello un altro mena, si venne a ricordar del cavalliero
nel cui palagio fu la sera a cena;
che per questa cittade, a dire il vero, avea giusta cagion di stare in pena:
e ricordossi del vaso da bere,
che mostra altrui l’error de la mogliere;

65
e ricordossi insieme de la prova
che d’aver fatta il cavallier narrolli; che di quanti avea esperti, uomo non trova che bea nel vaso, e ‘l petto non s’immolli. Or si pente, or tra sé dice: – È mi giova ch’a tanto paragon venir non volli.
Riuscendo, accertava il creder mio; non riuscendo, a che partito era io?

66
Gli è questo creder mio, come io l’avessi ben certo, e poco accrescer lo potrei:
sì che, s’al paragon mi succedessi, poco il meglio saria ch’io ne trarrei;
ma non già poco il mal, quando vedessi quel di Clarice mia, ch’io non vorrei.
Metter saria mille contra uno a giuoco; che perder si può molto, e acquistar poco. –

67
Stando in questo pensoso il cavalliero di Chiaramonte, e non alzando il viso,
con molta attenzion fu da un nocchiero che gli era incontra, riguardato fiso:
e perché di veder tutto il pensiero che l’occupava tanto, gli fu aviso,
come uom che ben parlava ed avea ardire, a seco ragionar lo fece uscire.

68
La somma fu del lor ragionamento,
che colui malaccorto era ben stato, che ne la moglie sua l’esperimento
maggior che può far donna, avea tentato; che quella che da l’oro e da l’argento
difende il cor di pudicizia armato, tra mille spade via più facilmente
difenderallo, e in mezzo al fuoco ardente.

69
Il nocchler suggiungea: – Ben gli dicesti, che non dovea offerirle sì gran doni;
che contrastare a questi assalti e a questi colpi non sono tutti i petti buoni.
Non so se d’una giovane intendesti
(ch’esser pò che tra voi se ne ragioni), che nel medesmo error vide il consorte,
di ch’esso avea lei condannata a morte.

70
Dovea in memoria avere il signor mio, che l’oro e ‘l premio ogni durezza inchina; ma, quando bisognò, l’ebbe in oblio,
ed ei si procacciò la sua ruina.
Così sapea lo esempio egli, com’io, che fu in questa città di qui vicina,
sua patria e mia, che ‘l lago e la palude del rifrenato Menzo intorno chiude:

71
d’Adonio voglio dir, che ‘l ricco dono fe’ alla moglie del giudice, d’un cane. – – Di questo (disse il paladino) il suono non passa l’Alpe, e qui tra voi rimane;
perché né in Francia, né dove ito sono, parlar n’udi’ ne le contrade estrane:
sì che dì pur, se non t’incresce il dire; che volentieri io mi t’acconcio a udire. –

72
Il nocchier cominciò: – Già fu di questa terra un Anselmo di famiglia degna,
che la sua gioventù con lunga vesta spese in saper ciò ch’Ulpiano insegna
e di nobil progenie, bella e onesta moglie cercò, ch’al grado suo convegna;
e d’una terra quindi non lontana
n’ebbe una di bellezza sopraumana;

73
e di bei modi e tanto graziosi,
che parea tutto amore e leggiadria; e di molto più forse, ch’ai riposi,
ch’allo stato di lui non convenia.
Tosto che l’ebbe, quanti mai gelosi al mondo fur, passò di gelosia:
non già ch’altra cagion gli ne desse ella, che d’esser troppo accorta e troppo bella.

74
Ne la città medesma un cavalliero
era d’antiqua e d’onorata gente,
che discendea da quel lignaggio altiero ch’uscì d’una mascella di serpente,
onde già Manto, e chi con essa fero la patria mia, disceser similmente.
Il cavallier, ch’Adonio nominosse,
di questa bella donna inamorosse.

75
E per venire a fin di questo amore, a spender cominciò senza ritegno
in vestire, in conviti, in farsi onore, quanto può farsi un cavallier più degno. Il tesor di Tiberio imperatore
non saria stato a tante spese al segno. Io credo ben che non passar duo verni,
ch’egli uscì fuor di tutti i ben paterni.

76
La casa ch’era dianzi frequentata
matina e sera tanto dagli amici,
sola restò, tosto che fu privata
di starne, di fagian, di coturnici. Egli che capo fu de la brigata,
rimase dietro, e quasi fra mendici. Pensò, poi ch’in miseria era venuto,
d’andare ove non fosse conosciuto.

77
Con questa intenzione una mattina,
senza far motto altrui, la patria lascia; e con sospiri e lacrime camina
lungo lo stagno che le mura fascia. La donna che del cor gli era regina,
già non oblia per la seconda ambascia. Ecco un’alta aventura che lo viene
di sommo male a porre in sommo bene.

78
Vede un villan che con un gran bastone intorno alcuni sterpi s’affatica.
Quivi Adonio si ferma, e la cagione di tanto travagliar vuol che gli dica.
Disse il villan, che dentro a quel macchione veduto avea una serpe molto antica,
di che più lunga e grossa a’ giorni suoi non vide, né credea mai veder poi;

79
e che non si voleva indi partire,
che non l’avesse ritrovata e morta. Come Adonio lo sente così dire,
con poca pazienza lo sopporta.
Sempre solea le serpi favorire;
che per insegna il sangue suo le porta in memoria ch’uscì sua prima gente
de’ denti seminati di serpente.

80
e disse e fece col villano in guisa che, suo mal grado, abbandonò l’impresa; sì che da lui non fu la serpe uccisa,
né più cercata, né altrimenti offesa. Adonio ne va poi dove s’avisa
che sua condizion sia meno intesa;
e dura con disagio e con affanno
fuor de la patria appresso al settimo anno.

81
Né mai per lontananza, né strettezza del viver, che i pensier non lascia ir vaghi, cessa Amor che sì gli ha la mano avezza, ch’ognor non li arda il core, ognor impiaghi. È forza al fin che torni alla bellezza
che son di riveder sì gli occhi vaghi. Barbuto, afflitto, e assai male in arnese, là donde era venuto, il camin prese.

82
In questo tempo alla mia patria accade mandare uno oratore al Padre santo,
che resti appresso alla sua Santitade per alcun tempo e non fu detto quanto.
Gettan la sorte, e nel giudice cade. Oh giorno a lui cagion sempre di pianto! Fe’ scuse, pregò assai, diede e promesse per non partirsi; e al fin sforzato cesse.

83
Non gli parea crudele e duro manco
a dover sopportar tanto dolore,
che se veduto aprir s’avesse il fianco, e vedutosi trar con mano il core.
Di geloso timor pallido e bianco
per la sua donna, mentre staria fuore, lei con quei modi che giovar si crede,
supplice priega a non mancar di fede:

84
dicendole ch’a donna né bellezza,
né nobiltà, né gran fortuna basta,
sì che di vero onor monti in altezza, se per nome e per opre non è casta;
e che quella virtù via più si prezza,