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ch’a’ Mori diè Rinaldo e Malagigi.
Quei che fuggiro io non saprei contarvi, né quei che fur cacciati ai fiumi stigi. Levò a Turpino il conto l’aria oscura,
che di contarli s’avea preso cura.

80
Nel primo sonno dentro al padiglione dormia Agramante; e un cavallier lo desta, dicendogli che fia fatto prigione,
se la fuga non è via più che presta. Guarda il re intorno, e la confusione
vede dei suoi, che van senza far testa chi qua chi là fuggendo inermi e nudi,
che non han tempo di pur tor gli scudi.

81
Tutto confuso e privo di consiglio
si facea porre indosso la corazza,
quando con Falsiron vi giunse il figlio, Grandonio e Balugante e quella razza;
e al re Agramante mostrano il periglio di restar morto o preso in quella piazza: e che può dir, se salva la persona,
che Fortuna gli sia propizia e buona.

82
Così Marsilio e così il buon Sobrino, e così dicon gli altri ad una voce,
ch’a sua distruzion tanto è vicino, quanto a Rinaldo il qual ne vien veloce; che s’aspetta che giunga il paladino
con tanta gente, e un uom tanto feroce, render certo si può ch’egli e i suo’ amici rimarran morti, o in man degli nimici.

83
Ma ridur si può in Arli o sia in Narbona con quella poca gente c’ha d’intorno;
che l’una e l’altra terra è forte e buona da mantener la guerra più d’un giorno:
e quando salva sia la sua persona,
si potrà vendicar di questo scorno, rifacendo l’esercito in un tratto,
onde al fin Carlo ne sarà disfatto.

84
Il re Agramante al parer lor s’attenne, ben che ‘l partito fosse acerbo e duro.
Andò verso Arli, e parve aver le penne, per quel camin che più trovò sicuro.
Oltre alle guide, in gran favor gli venne che la partita fu per l’aer scuro.
Ventimila tra d’Africa e di Spagna
fur, ch’a Rinaldo uscir fuor de la ragna.

85
Quei ch’egli uccise e quei che i suoi fratelli, quei che i duo figli del signor di Vienna, quei che provaro empi nimici e felli
i settecento a cui Rinaldo accenna, e quei che spense Sansonetto, e quelli
che ne la fuga s’affogaro in Senna, chi potesse contar, conteria ancora
ciò che sparge d’april Favonio e Flora.

86
Istima alcun che Malagigi parte
ne la vittoria avesse de la notte;
non che di sangue le campagne sparte fosser per lui, né per lui teste rotte:
ma che gl’infernali angeli per arte facesse uscir da le tartaree grotte,
e con tante bandiere e tante lance, ch’insieme più non ne porrian due France;

87
e che facesse udir tanti metalli,
tanti tamburi e tanti varii suoni,
tanti anitriri in voce di cavalli,
tanti gridi e tumulti di pedoni,
che risonare e piani e monti e valli dovean de le longique regioni:
ed ai Mori con questo un timor diede, che li fece voltare in fuga il piede.

88
Non si scordò il re d’Africa Ruggiero, ch’era ferito e stava ancora grave.
Quanto poté più acconcio s’un destriero lo fece por, ch’avea l’andar soave;
e poi che l’ebbe tratto ove il sentiero fu più sicuro, il fe’ posar in nave,
e verso Arli portar commodamente,
dove s’avea a raccor tutta la gente.

89
Quei ch’a Rinaldo e a Carlo dier le spalle (fur, credo, centomila o poco manco),
per campagne, per boschi e monte e valle cercaro uscir di man del popul franco;
ma la più parte trovò chiuso il calle, e fece rosso ov’era verde e bianco.
Così non fece il re di Sericana,
ch’avea da lor la tenda più lontana:

90
anzi, come egli sente che ‘l signore di Montalbano è questo che gli assalta,
gioisce di tal iubilo nel core,
che qua e là per allegrezza salta.
Loda e ringrazia il suo sommo Fattore, che quella notte gli occorra tant’alta
e sì rara aventura d’acquistare
Baiardo, quel destrier che non ha pare.

91
Avea quel re gran tempo desiato
(credo ch’altrove voi l’abbiate letto) d’aver la buona Durindana a lato,
e cavalcar quel corridor perfetto.
E già con più di centomila armato
era venuto in Francia a questo effetto; e con Rinaldo già sfidato s’era
per quel cavallo alla battaglia fiera;

92
e sul lito del mar s’era condutto
ove dovea la pugna diffinire:
ma Malagigi a turbar venne il tutto, che fe’ il cugin, mal grado suo, partire, avendol sopra un legno in mar ridutto.
Lungo saria tutta l’istoria dire.
Da indi in qua stimò timido e vile
sempre Gradasso il paladin gentile.

93
Or che Gradasso esser Rinaldo intende costui ch’assale il campo, se n’allegra. Si veste l’arme, e la sua alfana prende, e cercando lo va per l’aria negra:
e quanti ne riscontra, a terra stende; ed in confuso lascia afflitta ed egra
la gente, o sia di Libia o sia di Francia: tutti li mena a un par la buona lancia.

94
Lo va di qua di là tanto cercando,
chiamando spesso e quanto può più forte, e sempre a quella parte declinando,
ove più folte son le genti morte,
ch’al fin s’incontra in lui brando per brando poi che le lance loro ad una sorte
eran salite in mille schegge rotte
sin al carro stellato de la Notte.

95
Quando Gradasso il paladin gagliardo conosce, e non perché ne vegga insegna,
ma per gli orrendi colpi e per Baiardo, che par che sol tutto quel campo tegna;
non è, gridando, a improverargli tardo la prova che di sé fece non degna:
ch’al dato campo il giorno non comparse, che tra lor la battaglia dovea farse.

96
Suggiunse poi: – Tu forse avevi speme, se potevi nasconderti quel punto,
che non mai più per raccozzarci insieme fossimo al mondo: or vedi ch’io t’ho giunto. Sie certo, se tu andassi ne l’estreme
fosse di Stige, o fossi in cielo assunto, ti seguirò, quando abbi il destrier teco, ne l’alta luce e giù nel mondo cieco.

97
Se d’aver meco a far non ti dà il core, e vedi già che non puoi starmi a paro,
e più stimi la vita che l’onore,
senza periglio ci puoi far riparo,
quando mi lasci in pace il corridore; e viver puoi, se sì t’è il viver caro:
ma vivi a piè, che non merti cavallo, s’alla cavalleria fai sì gran fallo. –

98
A quel parlar si ritrovò presente
con Ricciardetto il cavallier Selvaggio; e le Spade ambi trassero ugualmente,
per far parere il Serican mal saggio. Ma Rinaldo s’oppose immantinente,
e non patì che se gli fêsse oltraggio, dicendo: – Senza voi dunque non sono
a chi m’oltraggia per risponder buono? –

99
Poi se ne ritornò verso il pagano,
e disse: – Odi, Gradasso; io voglio farte, e tu m’ascolti, manifesto e piano
ch’io venni alla marina a ritrovarte: e poi ti sosterrò con l’arme in mano,
che t’avrò detto il vero in ogni parte; e sempre che tu dica mentirai,
ch’alla cavalleria mancass’io mai.

100
Ma ben ti priego che prima che sia
pugna tra noi, che pianamente intenda la giustissima e vera scusa mia,
acciò ch’a torto più non mi riprenda; e poi Baiardo al termine di pria
tra noi vorrò ch’a piedi si contenda da solo a solo in solitario lato,
sì come a punto fu da te ordinato. –

101
Era cortese il re di Sericana,
come ogni cor magnanimo esser suole; ed è contento udir la cosa piana,
e come il paladin scusar si vuole.
Con lui ne viene in ripa alla fiumana, ove Rinaldo in semplici parole
alla sua vera istoria trasse il velo, e chiamò in testimonio tutto ‘l cielo:

102
e poi chiamar fece il figliuol di Buovo, l’uom che di questo era informato a pieno, ch’a parte a parte replicò di nuovo
l’incanto suo, né disse più né meno. Soggiunse poi Rinaldo: – Ciò ch’io provo col testimonio, io vo’ che l’arme sieno, che ora e in ogni tempo che ti piace,
te n’abbiano a far prova più verace. –

103
Il re Gradasso, che lasciar non volle per la seconda la querela prima,
le scuse di Rinaldo in pace tolle,
ma se son vere o false in dubbio stima. Non tolgon campo più sul lito molle
di Barcelona, ove lo tolser prima;
ma s’accordaro per l’altra matina
trovarsi a una fontana indi vicina:

104
ove Rinaldo seco abbia il cavallo,
che posto sia communemente in mezzo: se ‘l re uccide Rinaldo o il fa vassallo, se ne pigli il destrier senz’altro mezzo, ma se Gradasso è quel che faccia fallo,
che sia condotto all’ultimo ribrezzo, o, per più non poter, che gli si renda,
da lui Rinaldo Durindana prenda.

105
Con maraviglia molta e più dolore
(come v’ho detto) avea Rinaldo udito da Fiordiligi bella, ch’era fuore
de l’intelletto il suo cugino uscito. Avea de l’arme inteso anco il tenore,
e del litigio che n’era seguito;
e ch’in somma Gradasso avea quel brando ch’ornò di mille e mille palme Orlando.

106
Poi che furon d’accordo, ritornosse il re Gradasso ai servitori sui
ben che dal paladin pregato fosse
che ne venisse ad alloggiar con lui. Come fu giorno, il re pagano armosse;
così Rinaldo: e giunsero ambedui
ove dovea non lungi alla fontana
combattersi Baiardo e Durindana.

107
De la battaglia che Rinaldo avere
con Gradasso dovea da solo a solo,
parean gli amici suoi tutti temere, e inanzi il caso ne faceano il duolo.
Molto ardir, molta forza, alto sapere avea Gradasso; ed or che del figliuolo
del gran Milone avea la spada al fianco, di timor per Rinaldo era ognun bianco.

108
E più degli altri il frate di Viviano stava di questa pugna in dubbio e in tema, ed anco volentier vi porria mano
per farla rimaner d’effetto scema:
ma non vorria che quel da Montalbano seco venisse a inimicizia estrema;
ch’anco avea di quell’altra seco sdegno, che gli turbò, quando il levò sul legno.

109
Ma stiano gli altri in dubbio, in tema, in doglia: Rinaldo se ne va lieto e sicuro,
sperando ch’ora il biasmo se gli toglia, ch’avere a torto gli parea pur duro;
sì che quei da Pontieri e d’Altafoglia faccia cheti restar, come mai furo.
Va con baldanza e sicurtà di core
di riportarne il trionfale onore.

110
Poi che l’un quinci e l’altro quindi giunto fu quasi a un tempo in su la chiara fonte, s’accarezzaro, e fero a punto a punto
così serena ed amichevol fronte,
come di sangue e d’amistà congiunto fosse Gradasso a quel di Chiaramonte.
Ma come poi s’andassero a ferire,
vi voglio a un’altra volta differire.

CANTO TRENTADUESIMO

1
Soviemmi che cantar io vi dovea
(già lo promisi, e poi m’uscì di mente) d’una sospizion che fatto avea
la bella donna di Ruggier dolente,
de l’altra più spiacevole e più rea, e di più acuto e venenoso dente,
che per quel ch’ella udì da Ricciardetto, a devorare il cor l’entrò nel petto.

2
Dovea cantarne, ed altro incominciai, perché Rinaldo in mezzo sopravenne;
e poi Guidon mi diè che fare assai, che tra camino a bada un pezzo il tenne. D’una cosa in un’altra in modo entrai,
che mal di Bradamante mi sovenne:
sovienmene ora, e vo’ narrarne inanti che di Rinaldo e di Gradasso io canti.

3
Ma bisogna anco, prima ch’io ne parli, che d’Agramante io vi ragioni un poco,
ch’avea ridutte le reliquie in Arli, che gli restar del gran notturno fuoco,
quando a raccor lo sparso campo e a darli soccorso e vettovaglie era atto il loco: l’Africa incontra, e la Spagna ha vicina, ed è in sul fiume assiso alla marina.

4
Per tutto ‘l regno fa scriver Marsilio gente a piedi e a cavallo, e trista e buona. Per forza e per amore ogni navilio
atto a battaglia s’arma in Barcelona. Agramante ogni dì chiama a concilio;
né a spesa né a fatica si perdona.
Intanto gravi esazioni e spesse
tutte hanno le città d’Africa oppresse.

5
Egli ha fatto offerire a Rodomonte, perché ritorni (ed impetrar nol puote),
una cugina sua, figlia d’Almonte,
e ‘l bel regno d’Oran dargli per dote. Non si volse l’altier muover dal ponte,
ove tant’arme e tante selle vote
di quei che son già capitati al passo ha ragunate, che ne cuopre il sasso.

6
Già non volse Marfisa imitar l’atto di Rodomonte: anzi com’ella intese
ch’Agramante da Carlo era disfatto, sue genti morte, saccheggiate e prese,
e che con pochi in Arli era ritratto, senza aspettare invito, il camin prese:
venne in aiuto de la sua corona,
e l’aver gli proferse e la persona.

7
E gli menò Brunello, e gli ne fece
libero dono, il qual non avea offeso: l’avea tenuto dieci giorni e diece
notti sempre in timor d’essere appeso; e poi che né con forza né con prece
da nessun vide il patrocinio preso, in sì sprezzato sangue non si volse
bruttar l’altiere mani, e lo disciolse.

8
Tutte l’antique ingiurie gli remesse, e seco in Arli ad Agramante il trasse.
Ben dovete pensar che gaudio avesse il re di lei ch’ad aiutarlo andasse:
e del gran conto ch’egli ne facesse, volse che Brunel prova le mostrasse;
che quel di ch’ella gli avea fatto cenno, di volerlo impiccar, fe’ da buon senno.

9
Il manigoldo, in loco inculto ed ermo, pasto di corvi e d’avoltoi lasciollo.
Ruggier ch’un’altra volta gli fu schermo, e che ‘l laccio gli avria tolto dal collo, la giustizia di Dio fa ch’ora infermo
s’è ritrovato, ed aiutar non puollo: e quando il seppe, era già il fatto occorso; sì che restò Brunel senza soccorso.

10
Intanto Bradamante iva accusando
che così lunghi sian quei venti giorni, li quai finiti, il termine era quando
a lei Ruggiero ed alla fede torni.
A chi aspetta di carcere o di bando uscir, non par che ‘l tempo più soggiorni a dargli libertade, o de l’amata
patria vista gioconda e disiata.

11
In quel duro aspettare ella talvolta pensa ch’Eto e Piròo sia fatto zoppo;
o sia la ruota guasta, ch’a dar volta le par che tardi, oltr’all’usato, troppo. Più lungo di quel giorno a cui, per molta fede, nel cielo il giusto Ebreo fe’ intoppo, più de la notte ch’Ercole produsse,
parea lei ch’ogni notte, ogni dì fusse.

12
Oh quante volte da invidiar le diero e gli orsi e i ghiri e i sonnacchiosi tassi! che quel tempo voluto avrebbe intero
tutto dormir, che mai non si destassi; né potere altro udir, fin che Ruggiero
dal pigro sonno lei non richiamassi. Ma non pur questo non può far, ma ancora non può dormir di tutta notte un’ora.

13
Di qua di là va le noiose piume
tutte premendo, e mai non si riposa. Spesso aprir la finestra ha per costume, per veder s’anco di Titon la sposa
sparge dinanzi al matutino lume
il bianco giglio e la vermiglia rosa: non meno ancor, poi che nasciuto è ‘l giorno, brama vedere il ciel di stelle adorno.

14
Poi che fu quattro o cinque giorni appresso il termine a finir, piena di spene
stava aspettando d’ora in ora il messo che le apportasse: – Ecco Ruggier che viene. – Montava sopra un’alta torre spesso,
ch’i folti boschi e le campagne amene scopria d’intorno, e parte de la via
onde di Francia a Montalban si gìa.

15
Se di lontano o splendor d’arme vede, o cosa tal ch’a cavallier simiglia,
che sia il suo disiato Ruggier crede, e rasserena i begli occhi e le ciglia;
se disarmato o viandante a piede,
che sia messo di lui speranza piglia: e se ben poi fallace la ritrova,
pigliar non cessa una ed un’altra nuova.

16
Credendolo incontrar, talora armossi, scese dal monte e giù calò nel piano;
né lo trovando, si sperò che fossi
per altra strada giunto a Montalbano: e col disir con ch’avea i piedi mossi
fuor del castel, ritornò dentro invano. Né qua né là trovollo; e passò intanto
il termine aspettato da lei tanto.

17
Il termine passò d’uno, di dui,
di tre giorni, di sei, d’otto e di venti; né vedendo il suo sposo, né di lui
sentendo nuova, incominciò lamenti
ch’avrian mosso a pietà nei regni bui quelle Furie crinite di serpenti;
e fece oltraggio a’ begli occhi divini, al bianco petto, all’aurei crespi crini.

18
– Dunque fia ver (dicea) che mi convegna cercare un che mi fugge e mi s’asconde?
Dunque debbo prezzare un che mi sdegna? Debbo pregar chi mai non mi risponde?
Patirò che chi m’odia, il cor mi tegna? un che sì stima sue virtù profonde,
che bisogno sarà che dal ciel scenda immortal dea che ‘l cor d’amor gli accenda.

19
Sa questo altier ch’io l’amo e ch’io l’adoro, né mi vuol per amante né per serva.
Il crudel sa che per lui spasmo e moro, e dopo morte a darmi aiuto serva.
E perché io non gli narri il mio martoro atto a piegar la sua voglia proterva,
da me s’asconde, come aspide suole, che, per star empio, il canto udir non vuole.

20
Deh, ferma, Amor, costui che così sciolto dinanzi al lento mio correr s’affretta;
o tornami nel grado onde m’hai tolto quando né a te né ad altri era suggetta! Deh, come è il mio sperar fallace e stolto, ch’in te con prieghi mai pietà si metta; che ti diletti, anzi ti pasci e vivi
di trar dagli occhi lacrimosi rivi!

21
Ma di che debbo lamentarmi, ahi lassa fuor che del mio desire irrazionale?
ch’alto mi leva, e sì ne l’aria passa, ch’arriva in parte ove s’abbrucia l’ale; poi non potendo sostener, mi lassa
dal ciel cader: né qui finisce il male; che le rimette, e di nuovo arde: ond’io
non ho mai fine al precipizio mio.

22
Anzi via più che del disir, mi deggio di me doler, che sì gli apersi il seno;
onde cacciata ha la ragion di seggio, ed ogni mio poter può di lui meno.
Quel mi trasporta ognor di male in peggio, né lo posso frenar, che non ha freno:
e mi fa certa che mi mena a morte,
perch’aspettando il mal noccia più forte.

23
Deh perché voglio anco di me dolermi? Ch’error, se non d’amarti, unqua commessi? Che maraviglia, se fragili e infermi
feminil sensi fur subito oppressi?
Perché dovev’io usar ripari e schermi che la somma beltà non mi piacessi,
gli alti sembianti e le sagge parole? Misero è ben chi veder schiva il sole!

24
Ed oltre al mio destino, io ci fui spinta da le parole altrui degne di fede:
somma felicità mi fu dipinta,
ch’esser dovea di questo amor mercede. Se la persuasione, ohimè! fu finta,
se fu inganno il consiglio che mi diede Merlin, posso di lui ben lamentarmi,
ma non d’amar Ruggier posso ritrarmi.

25
Di Merlin posso e di Melissa insieme dolermi, e mi dorrò d’essi in eterno,
che dimostrare i frutti del mio seme mi fero dagli spirti de lo ‘nferno,
per pormi sol con questa falsa speme in servitù; né la cagion discerno,
se non ch’erano forse invidiosi
dei miei dolci, sicuri, almi riposi. –

26
Sì l’occupa il dolor, che non avanza loco ove in lei conforto abbia ricetto;
ma, mal grado di quel, vien la speranza e vi vuole alloggiare in mezzo il petto, rifrescandole pur la rimembranza
di quel ch’al suo partir l’ha Ruggier detto: e vuol, contra il parer degli altri affetti, che d’ora in ora il suo ritorno aspetti.

27
Questa speranza dunque la sostenne, finito i venti giorni, un mese appresso; sì che il dolor sì forte non le tenne,
come tenuto avria, l’animo oppresso. Un dì che per la strada se ne venne,
che per trovar Ruggier solea far spesso, novella udì la misera, ch’insieme
fe’ dietro all’altro ben fuggir la speme.

28
Venne a incontrare un cavallier guascone che dal campo african venìa diritto,
ove era stato da quel dì prigione,
che fu inanzi a Parigi il gran conflitto. Da lei fu molto posto per ragione,
fin che si venne al termine prescritto. Domandò di Ruggiero, e in lui fermosse;
né fuor di questo segno più si mosse.

29
Il cavallier buon conto ne rendette, che ben conoscea tutta quella corte:
e narrò di Ruggier, che contrastette da solo a solo a Mandricardo forte;
e come egli l’uccise, e poi ne stette ferito più d’un mese presso a morte:
e s’era la sua istoria qui conclusa, fatto avria di Ruggier la vera escusa.

30
Ma come poi soggiunse, una donzella esser nel campo, nomata Marfisa,
che men non era che gagliarda, bella, né meno esperta d’arme in ogni guisa;
che lei Ruggiero amava e Ruggiero ella, ch’egli da lei, ch’ella da lui divisa
si vedea raro, e ch’ivi ognuno crede che s’abbiano tra lor data la fede;

31
e che come Ruggier si faccia sano,
il matrimonio publicar si deve;
e ch’ogni re, ogni principe pagano
gran piacere e letizia ne riceve,
che de l’uno e de l’altro sopraumano conoscendo il valor, sperano in breve
far una razza d’uomini da guerra
la più gagliarda che mai fosse in terra;

32
credea il Guascon quel che dicea, non senza cagion; che ne l’esercito de’ Mori
openione e universal credenza,
e publico parlar n’era di fuori.
I molti segni di benivolenza
stati tra lor facean questi romori; che tosto o buona o ria che la fama esce fuor d’una bocca, in infinito cresce.

33
L’esser venuta a’ Mori ella in aita con lui, né senza lui comparir mai,
avea questa credenza stabilita;
ma poi l’avea accresciuta pur assai, ch’essendosi del campo già partita
portandone Brunel (come io contai), senza esservi d’alcuno richiamata,
sol per veder Ruggier v’era tornata.

34
Sol per lui visitar, che gravemente languia ferito, in campo venuta era,
non una sola volta, ma sovente;
vi stava il giorno e si partia la sera: e molto più da dir dava alla gente,
ch’essendo conosciuta così altiera, che tutto ‘l mondo a sé le parea vile,
solo a Ruggier fosse benigna e umile;

35
come il Guascon questo affermò per vero, fu Bradamante da cotanta pena,
da cordoglio assalita così fiero,
che di quivi cader si tenne a pena. Voltò, senza far motto, il suo destriero, di gelosia, d’ira e di rabbia piena;
e da sé discacciata ogni speranza,
ritornò furibonda alla sua stanza.

36
E senza disarmarsi, sopra il letto, col viso volta in giù, tutta si stese,
ove per non gridar, sì che sospetto di sé facesse, i panni in bocca prese;
e ripetendo quel che l’avea detto
il cavalliero, in tal dolor discese, che più non lo potendo sofferire,
fu forza a disfogarlo, e così a dire:

37
– Misera! a chi mai più creder debb’io? Vo’ dir ch’ognuno è perfido e crudele,
se perfido e crudel sei, Ruggier mio, che sì pietoso tenni e sì fedele.
Qual crudeltà, qual tradimento rio
unqua s’udì per tragiche querele,
che non trovi minor, se pensar mai
al mio merto e al tuo debito vorai?

38
Perché, Ruggier, come di te non vive cavallier di più ardir, di più bellezza, né che a gran pezzo al tuo valore arrive, né a’ tuoi costumi, né a tua gentilezza; perché non fai che fra tue illustri e dive virtù, si dica ancor ch’abbi fermezza?
si dica ch’abbi inviolabil fede?
a chi ogn’altra virtù s’inchina e cede.

39
Non sai che non compar, se non v’è quella, alcun valore, alcun nobil costume?
come né cosa (e sia quanto vuol bella) si può vedere ove non splenda lume.
Facil ti fu ingannare una donzella
di cui tu signore eri, idolo e nume, a cui potevi far con tue parole
creder che fosse oscuro e freddo il sole.

40
Crudel, di che peccato a doler t’hai, se d’uccider chi t’ama non ti penti?
Se ‘l mancar di tua fé sì leggier fai, di ch’altro peso il cor gravar ti senti? Come tratti il nimico, se tu dai
a me, che t’amo sì, questi tormenti? Ben dirò che giustizia in ciel non sia,
s’a veder tardo la vendetta mia.

41
Se d’ogn’altro peccato assai più quello de l’empia ingratitudine l’uomo grava,
e per questo dal ciel l’angel più bello fu relegato in parte oscura e cava;
e se gran fallo aspetta gran flagello quando debita emenda il cor non lava;
guarda ch’aspro flagello in te non scenda, che mi se’ ingrato e non vuoi farne emenda.

42
Di furto ancora, oltre ogni vizio rio, di te, crudele, ho da dolermi molto.
Che tu mi tenga il cor, non ti dico io; di questo io vo’ che tu ne vada assolto: dico di te, che t’eri fatto mio
e poi contra ragion mi ti sei tolto. Renditi, iniquo, a me; che tu sai bene
che non si può salvar chi l’altrui tiene.

43
Tu m’hai, Ruggier, lasciata: io te non voglio, né lasciarti volendo anco potrei;
ma per uscir d’affanno e di cordoglio, posso e voglio, finire i giorni miei.
Di non morirti in grazia sol mi doglio; che se concesso m’avessero i dei
ch’io fossi morta quando t’era grata, morte non fu giamai tanto beata. –

44
Così dicendo, di morir disposta,
salta dal letto, e di rabbia infiammata si pon la spada alla sinistra costa;
ma si ravvede poi che tutta è armata. Il miglior spirto in questo le s’accosta, e nel cor le ragiona: – O donna nata
di tant’alto lignaggio, adunque vuoi finir con sì gran biasmo i giorni tuoi?

45
Non è meglio ch’al campo tu ne vada, ove morir si può con laude ognora?
Quivi, s’avvien ch’inanzi a Ruggier cada, del morir tuo si dorrà forse ancora:
ma s’a morir t’avvien per la sua spada, chi sarà mai che più contenta muora?
Ragione è ben che di vita ti privi, poi ch’è cagion ch’in tanta pena vivi.

46
Verrà forse anco che prima che muori farai vendetta di quella Marfisa
che t’ha con fraudi e disonesti amori, da te Ruggiero alienando, uccisa. –
Questi pensieri parveno migliori
alla donzella; e tosto una divisa
si fe’ su l’arme, che volea inferire disperazione e voglia di morire.

47
Era la sopraveste del colore
in che riman la foglia che s’imbianca quando del ramo è tolta, o che l’umore
che facea vivo l’arbore le manca.
Ricamata a tronconi era, di fuore,
di cipresso che mai non si rinfranca, poi ch’ha sentita la dura bipenne;
l’abito al suo dolor molto convenne.

48
Tolse il destrier ch’Astolfo aver solea, e quella lancia d’or, che, sol toccando, cader di sella i cavallier facea.
Perché la le diè Astolfo, e dove e quando, e da chi prima avuta egli l’avea,
non credo che bisogni ir replicando. Ella la tolse, non però sapendo
che fosse del valor ch’era, stupendo.

49
Senza scudiero e senza compagnia
scese dal monte, e si pose in camino verso Parigi alla più dritta via,
ove era dianzi il campo saracino;
che la novella ancora non s’udia,
che l’avesse Rinaldo paladino,
aiutandolo Carlo e Malagigi,
fatto tor da l’assedio di Parigi.

50
Lasciati avea i Cadurci e la cittade di Caorse alle spalle, e tutto ‘l monte
ove nasce Dordona, e le contrade
scopria di Monferrante e di Clarmonte, quando venir per le medesme strade
vide una donna di benigna fronte,
ch’uno scudo all’arcione avea attaccato; e le venian tre cavallieri a lato.

51
Altre donne e scudier venivano anco, qual dietro e qual dinanzi, in lunga schiera. Domandò ad un che le passò da fianco,
la figlia d’Amon, chi la donna era; e quel le disse: – Al re del popul franco questa donna, mandata messaggera
fin di là dal polo artico, è venuta per lungo mar da l’Isola Perduta.

52
Altri Perduta, altri ha nomata Islanda l’isola, donde la regina d’essa,
di beltà sopra ogni beltà miranda,
dal ciel non mai, se non a lei, concessa, lo scudo che vedete, a Carlo manda;
ma ben con patto e condizione espressa, ch’al miglior cavallier lo dia, secondo
il suo parer, ch’oggi si trovi al mondo.

53
Ella, come si stima, e come in vero è la più bella donna che mai fosse,
così vorria trovare un cavalliero
che sopra ogn’altro avesse ardire e posse: perché fondato e fisso è il suo pensiero, da non cader per centomila scosse,
che sol chi terrà in arme il primo onore, abbia d’esser suo amante e suo signore.

54
Spera ch’in Francia, alla famosa corte di Carlo Magno, il cavallier si trove,
che d’esser più d’ogn’altro ardito e forte abbia fatto veder con mille prove.
I tre che son con lei come sue scorte, re sono tutti, e dirovvi anco dove:
uno in Svezia, uno in Gotia, in Norvegia uno, che pochi pari in arme hanno o nessuno.

55
Questi tre, la cui terra non vicina, ma men lontana è all’Isola Perduta
(detta così, perché quella marina
da pochi naviganti è conosciuta),
erano amanti, e son, de la regina,
e a gara per moglier l’hanno voluta; e per aggradir lei, cose fatt’hanno,
che, fin che giri il ciel, dette saranno.

56
Ma né questi ella, né alcun altro vuole, ch’al mondo in arme esser non creda il primo. – Ch’abbiate fatto prove (lor dir suole) in questi luoghi appresso, poco istimo;
e s’un di voi, qual fra le stelle il sole, fra gli altri duo sarà, ben lo sublimo:
ma non però che tenga il vanto parme del miglior cavallier ch’oggi port’arme.

57
A Carlo Magno, il quale io stimo e onoro pel più savio signor ch’al mondo sia,
son per mandare un ricco scudo d’oro, con patto e condizion ch’esso lo dia
al cavalliero il quale abbia fra loro il vanto e il primo onor di gagliardia.
Sia il cavalliero o suo vasallo o d’altri, il parer di quel re vo’ che mi scaltri.

58
Se, poi che Carlo avrà lo scudo avuto, e l’avrà dato a quel sì ardito e forte,
che d’ogn’altro migliore abbia creduto, che ‘n sua si trovi o in alcun’altra corte, uno di voi sarà, che con l’aiuto
di sua virtù lo scudo mi riporte;
porrò in quello ogni amore, ogni disio, e quel sarà il marito e ‘l signor mio. –

59
Queste parole han qui fatto venire
questi tre re dal mar tanto discosto, che riportarne lo scudo, o morire
per man di chi l’avrà, s’hanno proposto. – Ste’ molto attenta Bradamante a udire
quanto le fu da lo scudier risposto; il qual poi l’entrò inanzi, e così punse il suo cavallo, che i compagni giunse.

60
Dietro non gli galoppa né gli corre ella; ch’adagio il suo camin dispensa,
e molte cose tuttavia discorre,
che son per accadere: e in somma pensa che questo scudo di Francia sia per porre discordia e rissa e nimicizia immensa
fra paladini ed altri, se vuol Carlo chiarir chi sia il miglior, e a colui darlo.

61
Le preme il cor questo pensier; ma molto più le lo preme e strugge in peggior guisa quel ch’ebbe prima, di Ruggier, che tolto il suo amor le abbia e datolo a Marfisa. Ogni suo senso in questo è sì sepolto,
che non mira la strada, né divisa
ove arrivar, né se troverà inanzi
commodo albergo ove la notte stanzi.

62
Come nave, che vento da la riva,
o qualch’altro accidente abbia disciolta, va di nochiero e di governo priva
ove la porti o meni il fiume in volta; così l’amante giovane veniva,
tutta a pensare al suo Ruggier rivolta, ove vuol Rabican; che molte miglia
lontano è il cor che de’ girar la briglia.

63
Leva al fin gli occhi, e vede il sol che ‘l tergo avea mostrato alle città di Bocco,
e poi s’era attuffato, come il mergo, in grembo alla nutrice oltr’a Marocco:
e se disegna che la frasca albergo
le dia ne’ campi, fa pensier di sciocco; che soffia un vento freddo, e l’aria grieve pioggia la notte le minaccia o nieve.

64
Con maggior fretta fa movere il piede al suo cavallo; e non fece via molta,
che lasciar le campagne a un pastor vede, che s’avea la sua gregge inanzi tolta.
La donna lui con molta istanza chiede che le ‘nsegni ove possa esser raccolta
o ben o mal; che mal sì non s’alloggia, che non sia peggio star fuori alla pioggia.

65
Disse il pastore: – Io non so loco alcuno ch’io vi sappia insegnar, se non lontano più di quattro o di sei leghe, for ch’uno che si chiama la rocca di Tristano.
Ma d’alloggiarvi non succede a ognuno; perché bisogna, con la lancia in mano
che se l’acquisti e che se la difenda il cavallier che d’alloggiarvi intenda.

66
Se, quando arriva un cavallier, si trova vota la stanza, il castellan l’accetta;
ma vuol se sopravien poi gente nuova, ch’uscir fuori alla giostra gli prometta. Se non vien, non accade che si mova:
se vien, forza è che l’arme si rimetta e con lui giostri, e chi di lor val meno. ceda l’albergo ed esca al ciel sereno.

67
Se duo, tre, quattro o più guerrieri a un tratto vi giungon prima, in pace albergo v’hanno; e chi di poi vien solo, ha peggior patto, perché seco giostrar quei più lo fanno.
Così, se prima un sol si sarà fatto quivi alloggiar, con lui giostrar voranno in duo, tre, quattro o più che verran dopo; sì che, s’avrà valor, gli fia a grande uopo.

68
Non men, se donna capita o donzella, accompagnata o sola a questa rocca,
e poi v’arrivi un’altra, alla più bella l’albergo, ed alla men star di fuor tocca. – Domanda Bradamante ove sia quella;
e il buon pastor non pur dice con bocca, ma le dimostra il loco anco con mano,
da cinque o dai sei miglia indi lontano.

69
La donna, ancor che Rabican ben trotte, solecitar però non lo sa tanto
per quelle vie tutte fangose e rotte da la stagion ch’era piovosa alquanto,
che prima arrivi, che la cieca notte fatt’abbia oscuro il mondo in ogni canto. Trovò chiusa la porta; e a chi n’avea
la guardia disse ch’alloggiar volea.

70
Rispose quel, ch’era occupato il loco da donne e da guerrier che venner dianzi, e stavano aspettando intorno al fuoco
che posta fosse lor la cena inanzi. – Per lor non credo l’avrà fatta il cuoco, s’ella v’è ancor, né l’han mangiata inanzi (disse la donna): or va, che qui gli attendo; che so l’usanza, e di servarla intendo.-

71
Parte la guardia, e porta l’imbasciata là dove i cavallier stanno a grand’agio, la qual non poté lor troppo esser grata, ch’all’aer li fa uscir freddo e malvagio; ed era una gran pioggia incomminciata.
Si levan pure, e piglian l’arme adagio: restano gli altri; e quei non troppo in fretta escono insieme ove la donna aspetta.

72
Eran tre cavallier che valean tanto, che pochi al mondo valean più di loro;
ed eran quei che ‘l dì medesmo a canto veduti a quella messaggiera foro;
quei ch’in Islanda s’avean dato vanto di Francia riportar lo scudo d’oro:
e perché avean meglio i cavalli punti, prima di Bradamante eran giunti.

73
Di loro in arme pochi erano migliori, ma di quei pochi ella sarà ben l’una;
ch’a nessun patto rimaner di fuori
quella notte intendea molle e digiuna. Quei dentro alle finestre e ai corridori miran la giostra al lume de la luna,
che mal grado de’ nugoli lo spande
e fa veder, ben che la pioggia è grande.

74
Come s’allegra un bene acceso amante ch’ai dolci furti per entrar si trova,
quando al fin senta dopo indugie tante, che ‘l taciturno chiavistel si muova;
così volontarosa Bradamante
di far di sé coi cavallieri prova,
s’allegrò quando udì le porte aprire, calare il ponte, e fuor li vide uscire.

75
Tosto che fuor del ponte i guerrier vede uscire insieme o con poco intervallo,
si volge a pigliar campo, e di poi riede cacciando a tutta briglia il buon cavallo, e la lancia arrestando, che le diede
il suo cugin, che non si corre in fallo, che fuor di sella è forza che trabocchi, se fosse Marte, ogni guerrier che tocchi.

76
Il re di Svezia, che primier si mosse, fu primier anco a riversciarsi al piano: con tanta forza l’elmo gli percosse
l’asta che mai non fu abbassata invano. Poi corse il re di Gotia, e ritrovosse
coi piedi in aria al suo destrier lontano. Rimase il terzo sottosopra volto,
ne l’acqua e nel pantan mezzo sepolto.

77
Tosto ch’ella ai tre colpi tutti gli ebbe fatto andar coi piedi alti e i capi bassi, alla rocca ne va, dove aver debbe
la notte albergo; ma prima che passi, v’è chi la fa giurar che n’uscirebbe,
sempre ch’a giostrar fuori altri chiamassi. Il signor de là dentro, che ‘l valore
ben n’ha veduto, le fa grande onore.

78
Così le fa la donna che venuta
era con quegli tre quivi la sera,
come io dicea, da l’Isola Perduta,
mandata al re di Francia messaggiera. Cortesemente a lei che la saluta,
sì come graziosa e affabil era,
si leva incontra, e con faccia serena piglia per mano, e seco al fuoco mena.

79
La donna, cominciando a disarmarsi, s’avea lo scudo e dipoi l’elmo tratto;
quando una cuffia d’oro, in che celarsi soleano i capei lunghi e star di piatto, uscì con l’elmo; onde caderon sparsi
giù per le spalle, e la scopriro a un tratto e la feron conoscer per donzella,
non men che fiera in arme, in viso bella.

80
Quale al cader de le cortine suole
parer fra mille lampade la scena,
d’archi e di più d’una superba mole, d’oro e di statue e di pitture piena;
o come suol fuor de la nube il sole scoprir la faccia limpida e serena:
così, l’elmo levandosi dal viso,
mostrò la donna aprisse il paradiso.

81
Già son cresciute e fatte lunghe in modo le belle chiome che tagliolle il frate,
che dietro al capo ne può fare un nodo, ben che non sian come son prima state.
Che Bradamante sia, tien fermo e sodo (che ben l’avea veduta altre fiate)
il signor de la rocca; e più che prima or l’accarezza e mostra farne stima.

82
Siedono al fuoco, e con giocondo e onesto ragionamento dan cibo all’orecchia,
mentre, per ricreare ancora il resto del corpo, altra vivanda s’apparecchia.
La donna all’oste domandò se questo modo d’albergo è nuova usanza o vecchia, e quando ebbe principio, e chi la pose;
e ‘l cavalliero a lei così rispose:

83
– Nel tempo che regnava Fieramonte, Clodione, il figliuolo, ebbe una amica
leggiadra e bella e di maniere conte quant’altra fosse a quella etade antica; la quale amava tanto, che la fronte
non rivolgea da lei, più che si dica che facesse da Ione il suo pastore,
perch’avea ugual la gelosia all’amore.

84
Qui la tenea; che ‘l luogo avuto in dono avea dal padre, e raro egli n’uscia;
e con lui dieci cavallier ci sono,
e dei miglior di Francia tuttavia.
Qui stando, venne a capitarci il buono Tristano, ed una donna in compagnia,
liberata da lui poch’ore inante,
che traea presa a forza un fier gigante.

85
Tristano ci arrivò che ‘l sol già volto avea le spalle ai liti di Siviglia;
e domandò qui dentro esser raccolto, perché non c’è altra stanza a dieci miglia. Ma Clodion, che molto amava e molto
era geloso, in somma si consiglia
che forestier, sia chi si voglia, mentre ci stia la bella donna, qui non entre.

86
Poi che con lunghe ed iterate preci non poté aver qui albergo il cavalliero: – Or quel che far con prieghi io non ti feci, che ‘l facci (disse) tuo mal grado, spero, – E sfidò Clodion con tutti i dieci
che tenea appresso, e con un grido altiero se gli offerse con lancia e spada in mano provar che discortese era e villano;

87
con patto, che se fa che con lo stuolo suo cada in terra, ed ei stia in sella forte, ne la rocca alloggiar vuole egli solo,
e vuol gli altri serrar fuor de le porte. Per non patir quest’onta, va il figliuolo del re di Francia a rischio de la morte; ch’aspramente percosso cade in terra,
e cadon gli altri, e Tristan fuor li serra.

88
Entrato ne la rocca, trova quella
la qual v’ho detta a Clodion sì cara, e ch’avea, a par d’ogn’altra, fatto bella Natura, a dar bellezze così avara.
Con lei ragiona: intanto arde e martella di fuor l’amante aspra passione amara;
il qual non differisce a mandar prieghi al cavallier, che dar non gli la nieghi.

89
Tristano, ancor che lei molto non prezze, né prezzar, fuor ch’Isotta, altra potrebbe (ch’altra né ch’ami vuol né ch’accarezze la pozion che già incantata bebbe),
pur, perché vendicarsi de l’asprezze che Clodion gli ha usate si vorebbe:
– Di far gran torto mi parria (gli disse) che tal bellezza del suo albergo uscisse.

90
E quando a Clodion dormire incresca solo alla frasca, e compagnia domandi,
una giovane ho meco bella e fresca, non però di bellezze così grandi.
Questa sarò contento che fuor esca, e ch’ubbidisca a tutti i suoi comandi;
ma la più bella mi par dritto e giusto che stia con quel di noi ch’è più robusto. –

91
Escluso Clodione e malcontento,
andò sbuffando tutta notte in volta, come s’a quei che ne l’alloggiamento
dormiano ad agio, fêsse egli l’ascolta; e molto più che del freddo e del vento,
si dolea de la donna che gli è tolta. La mattina Tristano a cui ne ‘ncrebbe,
gli la rendé, donde il dolor fin ebbe:

92
perché gli disse, e lo fe’ chiaro e certo, che qual trovolla, tal gli la rendea;
e ben che degno era d’ogni onta in merto de la discortesia ch’usata avea,
pur contentar d’averlo allo scoperto fatto star tutta notte si volea:
né l’escusa accettò, che fosse Amore stato cagion di così grave errore;

93
ch’Amor de’ far gentile un cor villano, e non far d’un gentil contrario effetto. Partito che si fu di qui Tristano,
Clodion non ste’ molto a mutar tetto; ma prima consegnò la rocca in mano
a un cavallier, che molto gli era accetto, con patto ch’egli e chi da lui venisse,
quest’uso in albergar sempre seguisse:

94
che ‘l cavallier ch’abbia maggior possanza, e la donna beltà, sempre ci alloggi;
e chi vinto riman, voti la stanza,
dorma sul prato, o altrove scenda e poggi. E finalmente ci fe’ por l’usanza
che vedete durar fin al dì d’oggi. – Or, mentre il cavallier questo dicea,
lo scalco por la mensa fatto avea.

95
Fatto l’avea ne la gran sala porre, di che non era al mondo la più bella;
indi con torchi accesi venne a torre le belle donne, e le condusse in quella. Bradamante, all’entrar, con gli occhi scorre, e similmente fa l’altra donzella;
e tutte piene le superbe mura
veggon di nobilissima pittura.

96
Di sì belle figure è adorno il loco, che per mirarle oblian la cena quasi,
ancor che ai corpi non bisogni poco, pel travaglio del dì lassi rimasi,
e lo scalco si doglia e doglia il coco, che i cibi lascin raffreddar nei vasi.
Pur fu chi disse: – Meglio fia che voi pasciate prima il ventre, e gli occhi poi. –

97
S’erano assisi, e porre alle vivande voleano man, quando il signor s’avide
che l’alloggiar due donne è un error grande: l’una ha da star, l’altra convien che snide. Stia la più bella, e la men fuor si mande, dove la pioggia bagna e ‘l vento stride. Perché non vi son giunte amendue a un’ora, l’una ha a partire, e l’altra a far dimora.

98
Chiama duo vecchi, e chiama alcune sue donne di casa, a tal giudizio buone;
e le donzelle mira, e di lor due
chi la più bella sia, fa paragone.
Finalmente parer di tutti fue
ch’era più bella la figlia d’Amone; e non men di beltà l’altra vincea,
che di valore i guerrier vinti avea.

99
Alla donna d’Islanda, che non sanza molta sospizion stava di questo,
il signor disse: – Che serviàn l’usanza, non v’ha, donna, a parer se non onesto.
A voi convien procacciar d’altra stanza, quando a noi tutti è chiaro e manifesto
che costei di bellezze e di sembianti, ancor ch’inculta sia, vi passa inanti. –

100
Come si vede in un momento oscura
nube salir d’umida valle al cielo,
che la faccia che prima era sì pura cuopre del sol con tenebroso velo;
così la donna alla sentenza dura
che fuor la caccia ove è la pioggia e ‘l gielo, cangiar si vide, e non parer più quella
che fu pur dianzi sì gioconda e bella.

101
S’impallidisce e tutta cangia in viso, che tal sentenza udir poco le aggrada.
Ma Bradamante con un saggio aviso,
che per pietà non vuol che se ne vada, rispose: – A me non par che ben deciso,
né che ben giusto alcun giudicio cada, ove prima non s’oda quanto nieghi
la parte o affermi, e sue ragioni alleghi.

102
Io ch’a difender questa causa toglio, dico: o più bella o men ch’io sia di lei, non venni come donna qui, né voglio
che sian di donna ora i progressi miei. Ma chi dirà, se tutta non mi spoglio,
s’io sono o s’io non son quel ch’è costei? E quel che non si sa non si de’ dire,
e tanto men, quando altri n’ha a patire.

103
Ben son degli altri ancor, c’hanno le chiome lunghe, com’io, né donne son per questo. Se come cavallier la stanza, o come
donna acquistata m’abbia, è manifesto: perché dunque volete darmi nome
di donna, se di maschio è ogni mio gesto? La legge vostra vuol che ne sian spinte
donne da donne, e non da guerrier vinte.

104
Poniamo ancor, che, come a voi pur pare, io donna sia (che non però il concedo),
ma che la mia beltà non fosse pare
a quella di costei; non però credo
che mi vorreste la mercé levare
di mia virtù, se ben di viso io cedo. Perder per men beltà giusto non parmi
quel c’ho acquistato per virtù con l’armi.

105
E quando ancor fosse l’usanza tale, che chi perde in beltà ne dovesse ire,
io ci vorrei restare, o bene o male che la mia ostinazion dovesse uscire.
Per questo, che contesa diseguale
è tra me e questa donna, vo’ inferire che, contendendo di beltà, può assai
perdere, e meco guadagnar non mai.

106
E se guadagni e perdite non sono
in tutto pari, ingiusto è ogni partito: sì ch’a lei per ragion, sì ancor per dono spezial, non sia l’albergo proibito.
E s’alcuno di dir che non sia buono e dritto il mio giudizio sarà ardito,
sarò per sostenergli a suo piacere, che ‘l mio sia vero, e falso il suo parere. –

107
La figliuola d’Amon, mossa a pietade che questa gentil donna debba a torto
esser cacciata ove la pioggia cade, ove né tetto, ove né pure è un sporto,
al signor de l’albergo persuade
con ragion molte e con parlare accorto, ma molto più con quel ch’al fin concluse, che resti cheto e accetti le sue scuse.

108
Qual sotto il più cocente ardore estivo, quando di ber più desiosa è l’erba,
il fior ch’era vicino a restar privo di tutto quell’umor ch’in vita il serba, sente l’amata pioggia e si fa vivo;
così, poi che difesa sì superba
si vide apparecchiar la messaggera, lieta e bella tornò come prim’era.

109
La cena, stata lor buon pezzo avante, né ancor pur tocca, al fin godersi in festa, senza che più di cavalliero errante
nuova venuta fosse lor molesta.
La goder gli altri, ma non Bradamante, pure all’usanza addolorata e mesta;
che quel timor, che quel sospetto ingiusto che sempre avea nel cor, le tollea il gusto.

110
Finita ch’ella fu (che saria forse
stata più lunga, se ‘l desir non era di cibar gli occhi), Bradamante sorse,
e sorse appresso a lei la messaggera. Accennò quel signore ad un che corse
e prestamente allumò molta cera,
che splender fe’ la sala in ogni canto. Quel che seguì dirò ne l’altro canto.

CANTO TRENTATREESIMO

1
Timagora, Parrasio, Polignoto,
Protogene, Timante, Apollodoro,
Apelle, più di tutti questi noto,
e Zeusi, e gli altri ch’a quei tempi foro; di quai la fama (mal grado di Cloto,
che spinse i corpi e dipoi l’opre loro) sempre starà, fin che si legga e scriva, mercé degli scrittori, al mondo viva:

2
e quei che furo a’ nostri dì, o sono ora, Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino, duo Dossi, e quel ch’a par sculpe e colora, Michel, più che mortale, angel divino;
Bastiano, Rafael, Tizian, ch’onora
non men Cador, che quei Venezia e Urbino; e gli altri di cui tal l’opra si vede,
qual de la prisca età si legge e crede:

3
questi che noi veggiàn pittori, e quelli che già mille e mill’anni in pregio furo, le cose che son state, coi pennelli
fatt’hanno, altri su l’asse, altri sul muro. Non però udiste antiqui, né novelli
vedeste mai dipingere il futuro:
e pur si sono istorie anco trovate, che son dipinte inanzi che sian state.

4
Ma di saperlo far non si dia vanto
pittore antico né pittor moderno;
e ceda pur quest’arte al solo incanto, del qual trieman gli spirti de lo ‘nferno. La sala ch’io dicea ne l’altro canto,
Merlin col libro, o fosse al lago Averno, o fosse sacro alle Nursine grotte,
fece far dai demonii in una notte.

5
Quest’arte, con che i nostri antiqui fenno mirande prove, a nostra etade è estinta. Ma ritornando ove aspettar mi denno
quei che la sala hanno a veder dipinta, dico ch’a uno scudier fu fatto cenno,
ch’accese i torchi; onde la notte, vinta dal gran splendor, si dileguò d’intorno; né più vi si vedria, se fosse giorno.

6
Quel signor disse lor: – Vo’ che sappiate, che de le guerre che son qui ritratte,
fin al dì d’oggi poche ne son state; e son prima dipinte, che sian fatte.
Chi l’ha dipinte, ancor l’ha indovinate. Quando vittoria avran, quando disfatte
in Italia saran le genti nostre,
potrete qui veder come si mostre.

7
Le guerre ch’i Franceschi da far hanno di là da l’Alpe, o bene o mal successe,
dal tempo suo fin al millesim’anno, Merlin profeta in questa sala messe;
il qual mandato fu dal re britanno
al franco re ch’a Marcomir successe: e perché lo mandassi, e perché fatto
da Merlin fu il lavor, vi dirò a un tratto.

8
Re Fieramonte, che passò primiero
con l’esercito franco in Gallia il Reno, poi che quella occupò, facea pensiero
di porre alla superba Italia il freno. Faceal perciò, che più ‘l romano Impero
vedea di giorno in giorno venir meno: e per tal causa col britanno Arturo
volse far lega; ch’ambi a un tempo furo.

9
Artur, ch’impresa ancor senza consiglio del profeta Merlin non fece mai,
di Merlin, dico, del demonio figlio, che del futuro antivedeva assai,
per lui seppe, e saper fece il periglio a Fieramonte, a che di molti guai
porrà sua gente, s’entra ne la terra ch’Apenin parte, e il mare e l’Alpe serra.

10
Merlin gli fe’ veder che quasi tutti gli altri che poi di Francia scettro avranno, o di ferro gli eserciti distrutti,
o di fame o di peste si vedranno;
e che brevi allegrezze e lunghi lutti, poco guadagno ed infinito danno
riporteran d’Italia; che non lice
che ‘l Giglio in quel terreno abbia radice.

11
Re Fieramonte gli prestò tal fede,
ch’altrove disegnò volger l’armata; e Merlin, che così la cosa vede,
ch’abbia a venir, come se già sia stata, avere a’ prieghi di quel re si crede
la sala per incanto istoriata,
ove dei Franchi ogni futuro gesto,
come già stato sia, fa manifesto.

12
Acciò chi poi succederà, comprenda
che, come ha d’acquistar vittoria e onore, qualor d’Italia la difesa prenda
incontra ogn’altro barbaro furore;
così, s’avvien ch’a danneggiarla scenda, per porle il giogo e farsene signore,
comprenda, dico, e rendasi ben certo ch’oltre a quei monti avrà il sepulcro aperto. –

13
Così disse; e menò le donne dove
incomincian l’istorie: e Singiberto fa lor veder, che per tesor si muove,
che gli ha Maurizio imperatore offerto. – Ecco che scende dal monte di Giove
nel pian da l’Ambra e dal Ticino aperto. Vedete Eutar, che non pur l’ha respinto, ma volto in fuga e fracassato e vinto.

14
Vedete Clodoveo, ch’a più di cento
mila persone fa passare il monte:
vedete il duca là di Benevento,
che con numer dispar vien loro a fronte. Ecco finge lasciar l’alloggiamento,
e pon gli aguati: ecco, con morti ed onte, al vin lombardo la gente francesca
corre, e riman come la lasca all’esca.

15
Ecco in Italia Childiberto quanta
gente di Francia e capitani invia;
né più che Clodoveo, si gloria e vanta ch’abbia spogliata o vinta Lombardia;
che la spada del ciel scende con tanta strage de’ suoi, che n’è piena ogni via, morti di caldo e di profluvio d’alvo;
sì che di dieci un non ne torna salvo.

16
Mostra Pipino, e mostra Carlo appresso, come in Italia un dopo l’altro scenda,
e v’abbia questo e quel lieto successo, che venuto non v’è perché l’offenda;
ma l’uno, acciò il pastor Stefano oppresso, l’altro Adriano, e poi Leon difenda:
l’un doma Aistulfo, e l’altro vince e prende il successore, e al papa il suo onor rende.

17
Lor mostra appresso un giovene Pipino, che con sua gente par che tutto cuopra
da le Fornaci al lito pelestino;
e faccia con gran spesa e con lung’opra il ponte a Malamocco, e che vicino
giunga a Rialto, e vi combatta sopra. Poi fuggir sembra, e che i suoi lasci sotto l’acque; che ‘l ponte il vento e ‘l mar gli han rotto.

18
– Ecco Luigi Borgognon, che scende
là dove par che resti vinto e preso, e che giurar gli faccia chi lo prende,
che più da l’arme sue non sarà offeso. Ecco che ‘l giuramento vilipende;
ecco di nuovo cade al laccio teso;
ecco vi lascia gli occhi, e come talpe lo riportano i suoi di qua da l’Alpe.

19
Vedete un Ugo d’Arli far gran fatti, e che d’Italia caccia i Berengari;
e due o tre volte gli ha rotti e disfatti, or dagli Unni rimessi, or dai Bavari.
Poi da più forza è stretto di far patti con l’inimico, e non sta in vita guari;
né guari dopo lui vi sta l’erede,
e ‘l regno intero a Berengario cede.

20
Vedete un altro Carlo, che a’ conforti del buon Pastor fuoco in Italia ha messo; e in due fiere battaglie ha duo re morti, Manfredi prima, e Coradino appresso.
Poi la sua gente, che con mille torti sembra tenere il nuovo regno oppresso,
di qua e di là per le città divisa, vedete a un suon di vespro tutta uccisa. –

21
Lor mostra poi (ma vi parea intervallo di molti e molti, non ch’anni, ma lustri) scender dai monti un capitano Gallo,
e romper guerra ai gran Visconti illustri; e con gente francesca a piè e a cavallo
par ch’Alessandria intorno cinga e lustri; e che ‘l duca il presidio dentro posto,
e fuor abbia l’aguato un po’ discosto;

22
e la gente di Francia malaccorta,
tratta con arte ove la rete è tesa, col conte Armeniaco, la cui scorta
l’avea condotta all’infelice impresa, giaccia per tutta la campagna morta,
parte sia tratta in Alessandria presa: e di sangue non men che d’acqua grosso,
il Tanaro si vede il Po far rosso.

23
Un, detto de la Marca, e tre Angioini mostra l’un dopo l’altro, e dice: – Questi a Bruci, a Dauni, a Marsi, a Salentini
vedete come son spesso molesti.
Ma né de’ Franchi val né de’ Latini aiuto sì, ch’alcun di lor vi resti:
ecco li caccia fuor del regno, quante volte vi vanno, Alfonso e poi Ferrante.

24
Vedete Carlo ottavo, che discende
da l’Alpe, e seco ha il fior di tutta Francia, che passa il Liri e tutto ‘l regno prende senza mai stringer spada o abbassar lancia, fuor che lo scoglio ch’a Tifeo si stende su le braccia, sul petto e su la pancia; che del buon sangue d’Avalo al contrasto la virtù trova d’Inico del Vasto. –

25
Il signor de la rocca, che venìa
quest’istoria additando a Bradamante, mostrato che l’ebbe Ischia, disse: – Pria ch’a vedere altro più vi meni avante,
io vi dirò quel ch’a me dir solia
il bisavolo mio, quand’io era infante, e quel che similmente mi dicea
che da suo padre udito anch’esso avea;

26
e ‘l padre suo da un altro, o padre o fosse avolo, e l’un da l’altro sin a quello
ch’a udirlo da quel proprio ritrovosse, che l’imagini fe’ senza pennello,
che qui vedete bianche, azzurre e rosse: udì che, quando al re mostrò il castello ch’or mostro a voi su quest’altiero scoglio, gli disse quel ch’a voi riferir voglio.

27
Udì che gli dicea ch’in in questo loco di quel buon cavallier che lo difende
con tanto ardir, che par disprezzi il fuoco che d’ogn’intorno e sino al Faro incende, nascer debbe in quei tempi o dopo poco
(e ben gli disse l’anno e le calende) un cavalliero, a cui sarà secondo
ogn’altro che sin qui sia stato al mondo.

28
Non fu Nireo sì bel, non sì eccellente di forze Achille, e non sì ardito Ulisse, non sì veloce Lada, non prudente
Nestor, che tanto seppe e tanto visse, non tanto liberal, tanto clemente,
l’antica fama Cesare descrisse;
che verso l’uom ch’in Ischia nascer deve, non abbia ogni lor vanto a restar lieve.

29
E se si gloriò l’antiqua Creta,
quando il nipote in lei nacque di Celo, se Tebe fece Ercole e Bacco lieta,
se si vantò dei duo gemelli Delo;
né questa isola avrà da starsi cheta, che non s’esalti e non si levi in cielo, quando nascerà in lei quel gran marchese ch’avrà sì d’ogni grazia il ciel cortese.

30
Merlin gli disse, e replicògli spesso, ch’era serbato a nascere all’etade
che più il romano Imperio saria oppresso, acciò per lui tornasse in libertade.
Ma perché alcuno de’ suoi gesti appresso vi mostrerò, predirli non accade. –
Così disse; e tornò all’istoria dove di Carlo si vedean l’inclite prove.

31
– Ecco (dicea) sì pente Ludovico
d’aver fatto in ltalia venir Carlo; che sol per travagliar l’emulo antico
chiamato ve l’avea, non per cacciarlo; e se gli scuopre al ritornar nimico
con Veneziani in lega, e vuol pigliarlo. Ecco la lancia il re animoso abbassa,
apre la strada e, lor mal grado, passa.

32
Ma la sua gente ch’a difesa resta
del nuovo regno, ha ben contraria sorte; che Ferrante, con l’opra che gli presta
il signor mantuan, torna sì forte,
ch’in pochi mesi non ne lascia testa, o in terra o in mar, che non sia messa a morte: poi per un uom che gli è con fraude estinto, non par che senta il gaudio d’aver vinto. –

33
Così dicendo, mostragli il marchese Alfonso di Pescara, e dice: – Dopo
che costui comparito in mille imprese sarà più risplendente che piropo,
ecco qui ne l’insidie che gli ha tese con un trattato doppio il rio Etiopo,
come scannato di saetta cade
il miglior cavallier di quella etade.

34
Poi mostra ove il duodecimo Luigi
passa con scorta italiana i monti,
e svelto il Moro, pon la Fiordaligi nel fecondo terren già de’ Visconti.
Indi manda sua gente pei vestigi
di Carlo, a far sul Garigliano i ponti; la quale appresso andar rotta e dispersa si vede, e morta e nel fiume summersa.

35
Vedete in Puglia non minor macello
de l’esercito franco in fuga volto; e Consalvo Ferrante ispano è quello
che due volte alla trappola l’ha colto. E come qui turbato, così bello
mostra Fortuna al re Luigi il volto nel ricco pian che, fin dove Adria stride, tra l’Apenino e l’Alpe il Po divide. –

36
Così dicendo, se stesso riprende
che quel ch’avea a dir prima abbia lasciato; e torna a dietro, e mostra uno che vende il castel che ‘l signor suo gli avea dato; mostra il perfido Svizzero che prende
colui ch’a sua difesa l’ha assoldato: le quai due cose, senza abbassar lancia, han dato la vittoria al re di Francia.

37
Poi mostra Cesar Borgia col favore
di questo re farsi in Italia grande; ch’ogni baron di Roma, ogni signore
suggietto a lei, par ch’in esilio mande. Poi mostra il re che di Bologna fuore
leva la Sega, e vi fa entrar le Giande; poi come volge i Genovesi in fuga
fatti ribelli, e la città suggiuga.

38
– Vedete (dice poi) di gente morta
coperta in Giaradada la campagna.
Par ch’apra ogni cittade al re la porta, e che Venezia a pena vi rimagna.
Vedete come al papa non comporta
che, passati i confini di Romagna,
Modana al duca di Ferrara toglia,
né qui si fermi, e ‘l resto tor gli voglia:

39
e fa, all’incontro, a lui Bologna torre; che v’entra la Bentivola famiglia.
Vedete il campo de’ Francesi porre
a sacco Brescia, poi che la ripiglia; e quasi a un tempo Felsina soccorre,
e ‘l campo ecclesiastico sgombiglia: e l’uno e l’altro poi nei luoghi bassi
par si riduca del lito de Chiassi.

40
Di qua la Francia, e di là il campo ingrossa la gente ispana; e la battaglia è grande. Cader si vede e far la terra rossa
la gente d’arme in amendua le bande. Piena di sangue uman pare ogni fossa:
Marte sta in dubbio u’ la vittoria mande. Per virtù d’un Alfonso al fin si vede
che resta il Franco, e che l’Ispano cede,

41
e che Ravenna saccheggiata resta.
Si morde il papa per dolor le labbia, e fa da’ monti, a guisa di tempesta,
scendere in fretta una tedesca rabbia, ch’ogni Francese, senza mai far testa,
di qua da l’Alpe par che cacciat’abbia, e che posto un rampollo abbia del Moro
nel giardino onde svelse i Gigli d’oro.

42
Ecco torna il Francese: eccolo rotto da l’infedele Elvezio ch’in suo aiuto
con troppo rischio ha il giovine condotto, del quale il padre avea preso e venduto. Vedete poi l’esercito, che sotto
la ruota di Fortuna era caduto,
creato il novo re, che si prepara
de l’onta vendicar ch’ebbe a Novara:

43
e con migliore auspizio ecco ritorna. Vedete il re Francesco inanzi a tutti,
che così rompe a’ Svizzeri le corna, che poco resta a non gli aver distrutti: sì che ‘l titolo mai più non gli adorna, ch’usurpato s’avran quei villan brutti,
che domator de’ principi, e difesa
si nomeran de la cristiana Chiesa.

44
Ecco, mal grado de la lega, prende
Milano, e accorda il giovene Sforzesco. Ecco Borbon che la città difende
pel re di Francia dal furor tedesco. Eccovi poi, che mentre altrove attende
ad altre magne imprese il re Francesco, né sa quanta superbia e crudeltade
usino i suoi, gli è tolta la cittade.

45
Ecco un altro Francesco ch’assimiglia di virtù all’avo, e non di nome solo;
che, fatto uscirne i Galli, si ripiglia col favor de la Chiesa il patrio suolo.
Francia anco torna, ma ritien la briglia, né scorre Italia, come suole, a volo;
che ‘l bon duca di Mantua sul Ticino le chiude il passo, e le taglia il camino.

46
Federico, ch’ancor non ha la guancia de’ primi fiori sparsa, si fa degno
di gloria eterna, ch’abbia con la lancia, ma più con diligenza e con ingegno,
Pavia difesa dal furor di Francia,
e del Leon del mar rotto il disegno. Vedete duo marchesi, ambi terrore
di nostre genti, ambi d’Italia onore;

47
ambi d’un sangue, ambi in un nido nati. Di quel marchese Alfonso il primo è figlio, il qual tratto dal Negro negli aguati,
vedeste il terren far di sé vermiglio. Vedete quante volte son cacciati
d’Italia i Franchi pel costui consiglio. L’altro di sì benigno e lieto aspetto
il Vasto signoreggia, e Alfonso è detto.

48
– Questo è il buon cavallier, di cui dicea, quando l’isola d’Ischia vi mostrai,
che già profetizzando detto avea
Merlino a Fieramonte cose assai:
che diferire a nascere dovea
nel tempo che d’aiuto più che mai
l’afflitta Italia, la Chiesa e l’Impero contra ai barbari insulti avria mistiero.

49
Costui dietro al cugin suo di Pescara con l’auspicio di Prosper Colonnese,
vedete come la Bicocca cara
fa parere all’Elvezio e più al Francese. Ecco di nuovo Francia si prepara
di ristaurar le mal successe imprese: scende il re con un campo in Lombardia,
un altro per pigliar Napoli invia.

50
Ma quella che di noi fa come il vento d’arida polve, che l’aggira in volta,
la leva fin al cielo, e in un momento a terra la ricaccia, onde l’ha tolta;
fa ch’intorno a Pavia crede di cento mila persone aver fatto raccolta
il re, che mira a quel che di man gli esce, non se la gente sua si scema o cresce.

51
Così per colpa de’ ministri avari,
e per bontà del re che se ne fida,
sotto l’insegne si raccoglion rari, quando la notte il campo all’arme grida, che si vede assalir dentro ai ripari
dal sagace Spagnuol, che con la guida di duo del sangue d’Avalo ardiria
farsi nel cielo e ne lo ‘nferno via.

52
Vedete il meglio de la nobiltade
di tutta Francia alla campagna estinto. Vedete quante lance e quante spade
han d’ogn’intorno il re animoso cinto; vedete che ‘l destrier sotto gli cade:
né per questo si rende o chiama vinto, ben ch’a lui solo attenda, a lui sol corra lo stuol nimico, e non è chi ‘l soccorra.

53
Il re gagliardo si difende a piede, e tutto de l’ostil sangue si bagna:
ma virtù al fine a troppa forza cede. Ecco il re preso, ed eccolo in Ispagna:
ed a quel di Pescara dar si vede,
ed a chi mai da lui non si scompagna, a quel del Vasto, le prime corone
del campo rotto e del gran re prigione.

54
Rotto a Pavia l’un campo, l’altro ch’era, per dar travaglio a Napoli, in camino,
restar si vede, come, se la cera
gli manca o l’oglio, resta il lumicino. Ecco che ‘l re ne la prigione ibera
lascia i figliuoli, e torna al suo domìno: ecco fa a un tempo egli in Italia guerra; ecco altri la fa a lui ne la sua terra.

55
Vedete gli omicidi e le rapine
in ogni parte far Roma dolente;
e con incendi e stupri le divine
e le profane cose ire ugualmente.
Il campo de la lega le ruine
mira d’appresso, e ‘l pianto e ‘l grido sente; e dove ir dovria inanzi, torna indietro, e prender lascia il successor di Pietro.

56
Manda Lotrecco il re con nuove squadre, non più per fare in Lombardia l’impresa, ma per levar de le mani empie e ladre
il capo e l’altre membra de la Chiesa; che tarda sì, che trova al Santo Padre
non esser più la libertà contesa.
Assedia la cittade ove sepolta
è la sirena, e tutto il regno volta.

57
Ecco l’armata imperial si scioglie
per dar soccorso alla città assediata; ed ecco il Doria che la via le toglie,
e l’ha nel mar sommersa, arsa e spezzata. Ecco Fortuna come cangia voglie,
sin qui a’ Francesi sì propizia stata; che di febbre gli uccide, e non di lancia, sì che di mille un non ne torna in Francia. –

58
La sala queste ed altre istorie molte, che tutte saria lungo riferire,
in vari e bei colori avea raccolte; ch’era ben tal che le potea capire.
Tornano a rivederle due e tre volte,