né par che se ne sappiano partire;
e rilegon più volte quel ch’in oro
si vedea scritto sotto il bel lavoro.
59
Le belle donne e gli altri quivi stati mirando e ragionando insieme un pezzo,
fur dal signore a riposar menati,
ch’onorar gli osti suoi molt’era avezzo. Già sendo tutti gli altri addormentati,
Bradamante a corcar si va da sezzo, e si volta or su questo or su quel fianco, né può dormir sul destro né sul manco.
60
Pur chiude alquanto appresso all’alba i lumi, e di veder le pare il suo Ruggiero,
il qual le dica: – Perché ti consumi, dando credenza a quel che non è vero?
Tu vedrai prima all’erta andare i fiumi, ch’ad altri mai, ch’a te, volga il pensiero. S’io non amassi te, né il cor potrei
né le pupille amar degli occhi miei. –
61
E par che le suggiunga: – Io son venuto per battezzarmi e far quanto ho promesso; e s’io son stato tardi, m’ha tenuto
altra ferita, che d’amore, oppresso. – Fuggesi in questo il sonno, né veduto
è più Ruggier che se ne va con esso. Rinuova allora i pianti la donzella,
e ne la mente sua così favella:
62
– Fu quel che piacque, un falso sogno; e questo che mi tormenta, ahi lassa! è un veggiar vero. Il ben fu sogno a dileguarsi presto,
ma non è sogno il martire aspro e fiero. Perch’or non ode e vede il senso desto
quel ch’udire e veder parve al pensiero? A che condizione, occhi miei, sete,
che chiusi il ben, e aperti il mal vedete?
63
Il dolce sonno mi promise pace,
ma l’amaro veggiar mi torna in guerra: il dolce sonno è ben stato fallace,
ma l’amaro veggiare, ohimè! non erra. Se ‘l vero annoia, e il falso sì mi piace, non oda o vegga mai più vero in terra:
se ‘l dormir mi dà gaudio, e il veggiar guai, possa io dormir senza destarmi mai.
64
O felice animai ch’un sonno forte
sei mesi tien senza mai gli occhi aprire! Che s’assimigli tal sonno alla morte,
tal veggiare alla vita, io non vo’ dire; ch’a tutt’altre contraria la mia sorte
sente morte a veggiar, vita a dormire: ma s’a tal sonno morte s’assimiglia,
deh, Morte, or ora chiudimi le ciglia! –
65
De l’orizzonte il sol fatte avea rosse l’estreme parti, e dileguato intorno
s’eran le nubi, e non parea che fosse simile all’altro il cominciato giorno;
quando svegliata Bradamante armosse per fare a tempo al suo camin ritorno,
rendute avendo grazie a quel signore del buono albergo e de l’avuto onore.
66
E trovò che la donna messaggera,
con damigelle sue, con suoi scudieri uscita de la rocca, venut’era
là dove l’attendean quei tre guerrieri; quei che con l’asta d’oro essa la sera
fatto avea riversar giù dei destrieri, e che patito avean con gran disagio
la notte l’acqua e il vento e il ciel malvagio.
67
Arroge a tanto mal, ch’a corpo voto ed essi e i lor cavalli eran rimasi,
battendo i denti e calpestando il loto: ma quasi lor più incresce, e senza quasi incresce e preme più, che farà noto
la messaggera, appresso agli altri casi, alla sua donna, che la prima lancia
gli abbia abbattuti, c’han trovata in Francia.
68
E presti o di morire, o di vendetta subito far del ricevuto oltraggio,
acciò la messaggera, che fu detta
Ullania, che nomata più non aggio,
la mala opinion ch’avea concetta
forse di lor, si tolga del coraggio, la figliuola d’Amon sfidano a giostra,
tosto che fuor del ponte ella si mostra;
69
non pensando però che sia donzella, che nessun gesto di donzella avea.
Bradamante ricusa, come quella
ch’in fretta gìa, né soggiornar volea. Pur tanto e tanto fur molesti, ch’ella,
che negar senza biasmo non potea,
abbassò l’asta, ed a tre colpi in terra li mandò tutti; e qui finì la guerra:
70
che senza più voltarsi mostrò loro
lontan le spalle, e dileguossi tosto. Quei che, per guadagnar lo scudo d’oro,
di paese venian tanto discosto,
poi che senza parlar ritti si foro, che ben l’avean con ogni ardir deposto,
stupefatti parean di maraviglia,
né verso Ullania ardian d’alzar le ciglia;
71
che con lei molte volte per camino
dato s’avean troppo orgogliosi vanti: che non è cavallier né paladino
ch’al minor di lor tre durasse avanti. La donna, perché ancor più a capo chino
vadano, e più non sian così arroganti, fa lor saper che fu femina quella,
non paladin, che li levò di sella.
72
– Or che dovete (diceva ella), quando così v’abbia una femina abbattuti,
pensar che sia Rinaldo o che sia Orlando, non senza causa in tant’onore avuti?
S’un d’essi avrà lo scudo, io vi domando se migliori di quel che siate suti
contra una donna, contra lor sarete? Non credo io già, né voi forse il credete.
73
Questo vi può bastar; né vi bisogna del valor vostro aver più chiara prova:
e quel di voi che temerario aggogna far di sé in Francia esperienza nuova,
cerca giungere il danno alla vergogna in che ieri ed oggi s’è trovato e trova; se forse egli non stima utile e onore,
qualor per man di tai guerrier si muore. –
74
Poi che ben certi i cavallieri fece Ullania, che quell’era una donzella,
la qual fatto avea nera più che pece la fama lor, ch’esser solea sì bella;
e dove una bastava, più di diece
persone il detto confermar di quella; essi fur per voltar l’arme in se stessi, da tal dolor, da tanta rabbia oppressi.
75
E da lo sdegno e da la furia spinti, l’arme si spoglian, quante n’hanno indosso; né si lascian la spada onde eran cinti,
e del castel la gittano nel fosso:
e giuran, poi che gli ha una donna vinti, e fatto sul terren battere il dosso,
che, per purgar sì grave error, staranno senza mai vestir l’arme intero un anno;
76
e che n’andranno a piè pur tuttavia, o sia la strada piana, o scenda e saglia; né, poi che l’anno anco finito sia,
saran per cavalcare o vestir maglia, s’altr’arme, altro destrier da lor non fia guadagnato per forza di battaglia.
Così senz’arme, per punir lor fallo, essi a piè se n’andar, gli altri a cavallo.
77
Bradamante la sera ad un castello
ch’alla via di Parigi si ritrova,
di Carlo e di Rinaldo suo fratello, ch’avean rotto Agramante, udì la nuova.
Quivi ebbe buona mensa e buono ostello: ma questo ed ogn’altro agio poco giova;
che poco mangia e poco dorme, e poco, non che posar, ma ritrovar può loco.
78
Non però di costei voglio dir tanto, ch’io non ritorni a quei duo cavallieri
che d’accordo legato aveano a canto la solitaria fonte i duo destrieri.
La pugna lor, di che vo’ dirvi alquanto, non è per acquistar terre né imperi,
ma perché Durindana il più gagliardo abbia ad avere, e a cavalcar Baiardo.
79
Senza che tromba o segno altro accennasse quando a muover s’avean, senza maestro
che lo schermo e ‘l ferir lor ricordasse, e lor pungesse il cor d’animoso estro,
l’uno e l’altro d’accordo il ferro trasse, e si venne a trovare agile e destro.
I spessi e gravi colpi a farsi udire incominciaro, ed a scaldarsi l’ire.
80
Due spade altre non so per prova elette ad esser ferme e solide e ben dure,
ch’a tre colpi di quei si fosser rette, ch’erano fuor di tutte le misure:
ma quelle fur di tempre sì perfette, per tante esperienze sì sicure,
che ben poteano insieme riscontrarsi con mille colpi e più, senza spezzarsi.
81
Or qua Rinaldo, or là mutando il passo, con gran destrezza e molta industria ed arte fuggia di Durindana il gran fracasso,
che sa ben come spezza il ferro e parte. Ferìa maggior percosse il re Gradasso;
ma quasi tutte al vento erano sparte: se coglieva talor, coglieva in loco
ove potea gravare e nuocer poco.
82
L’altro con più ragion sua spada inchina, e fa spesso al pagan stordir le braccia; e quando ai fianchi e quando ove confina la corazza con l’elmo, gli la caccia:
ma trova l’armatura adamantina,
sì ch’una maglia non ne rompe o straccia. Se dura e forte la ritrova tanto,
avvien perch’ella è fatta per incanto.
83
Senza prender riposo erano stati
gran pezzo tanto alla battaglia fisi, che volti gli occhi in nessun mai de’ lati aveano, fuor che nei turbati visi;
quando da un’altra zuffa distornati, e da tanto furor furon divisi.
Ambi voltaro a un gran strepito il ciglio, e videro Baiardo in gran periglio.
84
Vider Baiardo a zuffa con un mostro ch’era più di lui grande, ed era augello: avea più lungo di tre braccia il rostro; l’altre fattezze avea di vipistrello;
avea la piuma negra come inchiostro; avea l’artiglio grande, acuto e fello;
occhi di fuoco, e sguardo avea crudele; l’ale avea grandi, che parean due vele.
85
Forse era vero augel, ma non so dove o quando un altro ne sia stato tale.
Non ho veduto mai, né letto altrove, fuor ch’in Turpin, d’un sì fatto animale: questo rispetto a credere mi muove,
che l’augel fosse un diavolo infernale che Malagigi in quella forma trasse,
acciò che la battaglia disturbasse.
86
Rinaldo il credette anco, e gran parole e sconce poi con Malagigi n’ebbe.
Egli già confessar non glielo vuole; e perché tor di colpa si vorrebbe,
giura pel lume che dà lume al sole, che di questo imputato esser non debbe.
Fosse augello o demonio, il mostro scese sopra Baiardo, e con l’artiglio il prese.
87
Le redine il destrier, ch’era possente, subito rompe, e con sdegno e con ira
contra l’augello i calci adopra e ‘l dente; ma quel veloce in aria si ritira:
indi ritorna, e con l’ugna pungente lo va battendo, e d’ogn’intorno aggira.
Baiardo offeso, e che non ha ragione di schermo alcun, ratto a fuggir si pone.
88
Fugge Baiardo alla vicina selva,
e va cercando le più spesse fronde. Segue di sopra la pennuta belva
con gli occhi fisi ove la via seconde; ma pure il buon destrier tanto s’inselva, ch’al fin sotto una grotta si nasconde.
Poi che l’alato ne perde la traccia, ritorna in cielo, e cerca nuova caccia.
89
Rinaldo e ‘l re Gradasso, che partire veggono la cagion de la lor pugna,
restan d’accordo quella differire
fin che Baiardo salvino da l’ugna
che per la scura selva il fa fuggire; con patto, che qual d’essi lo raggiugna, a quella fonte lo restituisca,
ove la lite lor poi si finisca.
90
Seguendo, si partir da la fontana,
l’erbe novellamente in terra peste. Molto da lor Baiardo s’allontana,
ch’ebbon le piante in seguir lui mal preste. Gradasso, che non lungi avea l’alfana,
sopra vi salse, e per quelle foreste molto lontano il paladin lasciosse,
tristo e peggio contento che mai fosse.
91
Rinaldo perdé l’orme in pochi passi del suo destrier, che fe’ strano viaggio; ch’andò rivi cercando, arbori e sassi,
il più spinoso luogo, il più selvaggio, acciò che da quella ugna si celassi,
che cadendo dal ciel gli facea oltraggio. Rinaldo, dopo la fatica vana,
ritornò ad aspettarlo alla fontana,
92
se da Gradasso vi fosse condutto,
sì come tra lor dianzi si convenne. Ma poi che far si vide poco frutto,
dolente e a piedi in campo se ne venne. Or torniamo a quell’altro, al quale in tutto diverso da Rinaldo il caso avvenne.
Non per ragion, ma per suo gran destino sentì anitrire il buon destrier vicino;
93
e lo trovò ne la spelonca cava,
da l’avuta paura anco sì oppresso,
ch’uscire allo scoperto non osava:
perciò l’ha in suo potere il pagan messo. Ben de la convenzion si raccordava,
ch’alla fonte tornar dovea con esso; ma non è più disposto d’osservarla,
e così in mente sua tacito parla:
94
– Abbial chi aver lo vuol con lite e guerra: io d’averlo con pace più disio.
Da l’uno all’altro capo de la terra già venni, e sol per far Baiardo mio.
Or ch’io l’ho in mano, ben vaneggia ed erra chi crede che depor lo volesse io.
Se Rinaldo lo vuol, non disconviene, come io già in Francia, or s’egli in India viene.
95
Non men sicura a lui fia Sericana,
che già due volte Francia a me sia stata. – Così dicendo, per la via più piana
ne venne in Arli, e vi trovò l’armata; e quindi con Baiardo e Durindana
si partì sopra una galea spalmata.
Ma questo a un’altra volta; ch’or Gradasso, Rinaldo e tutta Francia a dietro lasso.
96
Voglio Astolfo seguir, ch’a sella e a morso, a uso facea andar di palafreno
l’ippogrifo per l’aria a sì gran corso, che l’aquila e il falcon vola assai meno. Poi che de’ Galli ebbe il paese scorso
da un mare a l’altro e da Pirene al Reno, tornò verso ponente alla montagna
che separa la Francia da la Spagna.
97
Passò in Navarra, ed indi in Aragona, lasciando a chi ‘l vedea gran maraviglia. Restò lungi a sinistra Taracona,
Biscaglia a destra, ed arrivò in Castiglia. Vide Gallizia e ‘l regno d’Ulisbona,
poi volse il corso a Cordova e Siviglia; né lasciò presso al mar né fra campagna
città, che non vedesse tutta Spagna.
98
Vide le Gade e la meta che pose
ai primi naviganti Ercole invitto.
Per l’Africa vagar poi si dispose
dal mar d’Atlante ai termini d’Egitto. Vide le Baleariche famose,
e vide Eviza appresso al camin dritto. Poi volse il freno, e tornò verso Arzilla sopra ‘l mar che da Spagna dipartilla.
99
Vide Marocco, Feza, Orano, Ippona,
Algier, Buzea, tutte città superbe, c’hanno d’altre città tutte corona,
corona d’oro, e non di fronde o d’erbe. Verso Biserta e Tunigi poi sprona:
vide Capisse e l’isola d’Alzerbe
e Tripoli e Bernicche e Tolomitta,
sin dove il Nilo in Asia si tragitta.
100
Tra la marina e la silvosa schena
del fiero Atlante vide ogni contrada. Poi diè le spalle ai monti di Carena,
e sopra i Cirenei prese la strada;
e traversando i campi de l’arena,
venne a’ confin di Nubia in Albaiada. Rimase dietro il cimiter di Batto
e l’gran tempio d’Amon, ch’oggi è disfatto.
101
Indi giunse ad un’altra Tremisenne, che di Maumetto pur segue lo stilo.
Poi volse agli altri Etiopi le penne, che contra questi son di là dal Nilo.
Alla città di Nubia il camin tenne
tra Dobada e Coalle in aria a filo. Questi cristiani son, quei saracini;
e stan con l’arme in man sempre a’ confini.
102
Senapo imperator de la Etiopia,
ch’in loco tien di scettro in man la croce, di gente, di cittadi e d’oro ha copia
quindi fin là dove il mar Rosso ha foce; e serva quasi nostra fede propia,
che può salvarlo da l’esilio atroce. Gli è, s’io non piglio errore, in questo loco ove al battesmo loro usano un fuoco.
103
Dismontò il duca Astolfo alla gran corte dentro di Nubia, e visitò il Senapo.
Il castello è più ricco assai che forte, ove dimora d’Etiopia il capo.
Le catene dei ponti e de le porte,
gangheri e chiavistei da piedi a capo, e finalmente tutto quel lavoro
che noi di ferro usiamo, ivi usan d’oro.
104
Ancor che del finissimo metallo
vi sia tale abondanza, è pur in pregio. Colonnate di limpido cristallo
son le gran logge del palazzo regio. Fan rosso, bianco, verde, azzurro e giallo sotto i bei palchi un relucente fregio,
divisi tra proporzionati spazi,
rubin, smeraldi, zafiri e topazi.
105
In mura, in tetti, in pavimenti sparte eran le perle, eran le ricche gemme.
Quivi il balsamo nasce; e poca parte n’ebbe appo questi mai Ierusalemme.
Il muschio ch’a noi vien, quindi si parte; quindi vien l’ambra, e cerca altre maremme: vengon le cose in somma da quel canto,
che nei paesi nostri vaglion tanto.
106
Si dice che ‘l soldan, re de l’Egitto, a quel re dà tributo e sta suggetto,
perch’è in poter di lui dal camin dritto levare il Nilo, e dargli altro ricetto,
e per questo lasciar subito afflitto di fame il Cairo e tutto quel distretto. Senapo detto è dai sudditi suoi;
gli diciàn Presto o Preteianni noi.
107
Di quanti re mai d’Etiopia foro,
il più ricco fu questi e il più possente; ma con tutta sua possa e suo tesoro,
gli occhi perduti avea miseramente. E questo era il minor d’ogni martoro:
molto era più noioso e più spiacente, che, quantunque ricchissimo si chiame,
cruciato era da perpetua fame.
108
Se per mangiare o ber quello infelice venìa cacciato dal bisogno grande,
tosto apparia l’infernal schiera ultrice, le mostruose arpie brutte e nefande,
che col griffo e con l’ugna predatrice spargeano i vasi, e rapian le vivande;
e quel che non capia lor ventre ingordo, vi rimanea contaminato e lordo.
109
E questo, perch’essendo d’anni acerbo, e vistosi levato in tanto onore,
che, oltre alle ricchezze, di più nerbo era di tutti gli altri e di più core;
divenne, come Lucifer, superbo,
e pensò muover guerra al suo Fattore. Con la sua gente la via prese al dritto
al monte onde esce il gran fiume d’Egitto.
110
Inteso avea che su quel monte alpestre, ch’oltre alle nubi e presso al ciel si leva, era quel paradiso che terrestre
si dice, ove abitò già Adamo ed Eva. Con camelli, elefanti, e con pedestre
esercito, orgoglioso si moveva
con gran desir, se v’abitava gente, di farla alle sue leggi ubbidiente.
111
Dio gli ripresse il temerario ardire, e mandò l’angel suo tra quelle frotte,
che centomila ne fece morire,
e condannò lui di perpetua notte.
Alla sua mensa poi fece venire
l’orrendo mostro da l’infernal grotte, che gli rapisce e contamina i cibi,
né lascia che ne gusti o ne delibi.
112
Ed in desperazion continua il messe uno che già gli avea profetizzato
che le sue mense non sariano oppresse da la rapina e da l’odore ingrato,
quando venir per l’aria si vedesse
un cavallier sopra un cavallo alato. Perché dunque impossibil parea questo,
privo d’ogni speranza vivea mesto.
113
Or che con gran stupor vede la gente sopra ogni muro e sopra ogn’alta torre
entrare il cavalliero, immantinente è chi a narrarlo al re di Nubia corre,
a cui la profezia ritorna a mente;
ed obliando per letizia torre
la fedel verga, con le mani inante
vien brancolando al cavallier volante.
114
Astolfo ne la piazza del castello
con spaziose ruote in terra scese.
Poi che fu il re condotto inanzi a quello, inginochiossi, e le man giunte stese,
e disse: – Angel di Dio, Messi novello, s’io non merto perdono a tante offese,
mira che proprio è a noi peccar sovente, a voi perdonar sempre a chi si pente.
115
Del mio error consapevole, non chieggio né chiederti ardirei gli antiqui lumi.
Che tu lo possa far, ben creder deggio, che sei de’ cari a Dio beati numi.
Ti basti il gran martìr ch’io non ci veggio, senza ch’ognor la fame mi consumi:
almen discaccia le fetide arpie,
che non rapiscan le vivande mie.
116
E di marmore un tempio ti prometto
edificar de l’alta regia mia,
che tutte d’oro abbia le porte e ‘l tetto, e dentro e fuor di gemme ornato sia;
e dal tuo santo nome sarà detto,
e del miracol tuo scolpito fia. –
Così dicea quel re che nulla vede,
cercando invan baciare al duca il piede.
117
Rispose Astolfo: – Né l’angel di Dio, né son Messia novel, né dal cielo vegno; ma son mortale e peccatore anch’io,
di tanta grazia a me concessa indegno. Io farò ogn’opra acciò che ‘l mostro rio, per morte o fuga, io ti levi del regno.
S’io il fo, me non, ma Dio ne loda solo, che per tuo aiuto qui mi drizzò il volo.
118
Fa questi voti a Dio, debiti a lui; a lui le chiese edifica e gli altari. –
Così parlando, andavano ambidui
verso il castello fra i baron preclari. Il re commanda ai servitori sui
che subito il convito si prepari,
sperando che non debba essergli tolta la vivanda di mano a questa volta.
119
Dentro una ricca sala immantinente
apparecchiossi il convito solenne.
Col Senapo s’assise solamente
il duca Astolfo, e la vivanda venne. Ecco per l’aria lo stridor si sente,
percossa intorno da l’orribil penne; ecco venir l’arpie brutte e nefande,
tratte dal cielo a odor de le vivande.
120
Erano sette in una schiera, e tutte volto di donne avean, pallide e smorte,
per lunga fame attenuate e asciutte, orribili a veder più che la morte.
L’alaccie grandi avean, deformi e brutte; le man rapaci, e l’ugne incurve e torte; grande e fetido il ventre, e lunga coda, come di serpe che s’aggira e snoda.
121
Si sentono venir per l’aria, e quasi si veggon tutte a un tempo in su la mensa rapire i cibi e riversare i vasi:
e molta feccia il ventre lor dispensa, tal che gli è forza d’atturare i nasi;
che non si può patir la puzza immensa. Astolfo, come l’ira lo sospinge,
contra gli ingordi augelli il ferro stringe.
122
Uno sul collo, un altro su la groppa percuote, e chi nel petto, e chi ne l’ala; ma come fera in su ‘n sacco di stoppa,
poi langue il colpo, e senza effetto cala: e quei non vi lasciar piatto né coppa
che fosse intatta, né sgombrar la sala, prima che le rapine e il fiero pasto
contaminato il tutto avesse e guasto.
123
Avuto avea quel re ferma speranza
nel duca, che l’arpie gli discacciassi; ed or che nulla ove sperar gli avanza,
sospira e geme, e disperato stassi. Viene al duca del corno rimembranza,
che suole aitarlo ai perigliosi passi; e conchiude tra sé, che questa via
per discacciare i mostri ottima sia.
124
E prima fa che ‘l re con suoi baroni di calda cera l’orecchia si serra,
acciò che tutti, come il corno suoni, non abbiano a fuggir fuor de la terra.
Prende la briglia, e salta sugli arcioni de l’ippogrifo, ed il bel corno afferra; e con cenni allo scalco poi commanda
che riponga la mensa e la vivanda.
125
E così in una loggia s’apparecchia
con altra mensa altra vivanda nuova. Ecco l’arpie che fan l’usanza vecchia:
Astolfo il corno subito ritrova.
Cli augelli, che non han chiusa l’orecchia, udito il suon, non puon stare alla prova; ma vanno in fuga pieni di paura,
né di cibo né d’altro hanno più cura.
126
Subito il paladin dietro lor sprona: volando esce il destrier fuor de la loggia, e col castel la gran città abandona,
e per l’aria, cacciando i mostri, poggia. Astolfo il corno tuttavolta suona:
fuggon l’arpie verso la zona roggia, tanto che sono all’altissimo monte
ove il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte.
127
Quasi de la montagna alla radice
entra sotterra una profonda grotta, che certissima porta esser si dice
di ch’allo ‘nferno vuol scender talotta. Quivi s’è quella turba predatrice,
come in sicuro albergo, ricondotta, e giù sin di Cocito in su la proda
scesa, e più là, dove quel suon non oda.
128
All’infernal caliginosa buca
ch’apre la strada a chi abandona il lume, finì l’orribil suon l’inclito duca,
e fe’ raccorre al suo destrier le piume. Ma prima che più inanzi io lo conduca,
per non mi dipartir dal mio costume, poi che da tutti i lati ho pieno il foglio, finire il canto, e riposar mi voglio.
CANTO TRENTAQUATTRESIMO
1
Oh famelice, inique e fiere arpie
ch’all’accecata Italia e d’error piena, per punir forse antique colpe rie,
in ogni mensa alto giudicio mena!
Innocenti fanciulli e madri pie
cascan di fame, e veggon ch’una cena di questi mostri rei tutto divora
ciò che del viver lor sostegno fôra.
2
Troppo fallò chi le spelonche aperse, che già molt’anni erano state chiuse;
onde il fetore e l’ingordigia emerse, ch’ad ammorbare Italia si diffuse.
Il bel vivere allora si summerse;
e la quiete in tal modo s’escluse,
ch’in guerre, in povertà sempre e in affanni è dopo stata, ed è per star molt’anni:
3
fin ch’ella un giorno ai neghitosi figli scuota la chioma, e cacci fuor di Lete,
gridando lor: – Non fia chi rassimigli alla virtù di Calai e di Zete?
che le mense dal puzzo e dagli artigli liberi, e torni a lor mondizia liete,
come essi già quelle di Fineo, e dopo fe’ il paladin quelle del re etiopo. –
4
Il paladin col suono orribil venne
le brutte arpie cacciando in fuga e in rotta, tanto ch’a piè d’un monte si ritenne,
ove esse erano entrate in una grotta. L’orecchie attente allo spiraglio tenne, e l’aria ne sentì percossa e rotta
da pianti e d’urli e da lamento eterno: segno evidente quivi esser lo ‘nferno.
5
Astolfo si pensò d’entrarvi dentro, e veder quei c’hanno perduto il giorno,
e penetrar la terra fin al centro,
e le bolge infernal cercare intorno. – Di che debbo temer (dicea) s’io v’entro, che mi posso aiutar sempre col corno?
Farò fuggir Plutone e Satanasso,
e ‘l can trifauce leverò dal passo. –
6
De l’alato destrier presto discese, e lo lasciò legato a un arbuscello:
poi si calò ne l’antro, e prima prese il corno, avendo ogni sua speme in quello. Non andò molto inanzi, che gli offese
il naso e gli occhi un fumo oscuro e fello, più che di pece grave e che di zolfo:
non sta d’andar per questo inanzi Astolfo.
7
Ma quando va più inanzi, più s’ingrossa il fumo e la caligine, e gli pare
ch’andare inanzi più troppo non possa; che sarà forza a dietro ritornare.
Ecco, non sa che sia, vede far mossa da la volta di sopra, come fare
il cadavero appeso al vento suole,
che molti dì sia stato all’acqua e al sole.
8
Sì poco, e quasi nulla era di luce
in quella affumicata e nera strada, che non comprende e non discerne il duce chi questo sia che sì per l’aria vada;
e per notizia averne si conduce
a dargli uno o due colpi de la spada. Stima poi ch’un spirto esser quel debbia; che gli par di ferir sopra la nebbia.
9
Allor sentì parlar con voce mesta:
– Deh, senza fare altrui danno, giù cala! Pur troppo il negro fumo mi molesta,
che dal fuoco infernal qui tutto esala. – Il duca stupefatto allor s’arresta,
e dice all’ombra: – Se Dio tronchi ogni ala al fumo, sì ch’a te più non ascenda,
non ti dispiaccia che ‘l tuo stato intenda.
10
E se vuoi che di te porti novella
nel mondo su, per satisfarti sono. – L’ombra rispose: – Alla luce alma e bella tornar per fama ancor sì mi par buono,
che le parole è forza che mi svella il gran desir c’ho d’aver poi tal dono,
e che ‘l mio nome e l’esser mio ti dica, ben che ‘l parlar mi sia noia e fatica. –
11
E cominciò: – Signor, Lidia sono io, del re di Lidia in grande altezza nata,
qui dal giudicio altissimo di Dio
al fumo eternamente condannata,
per esser stata al fido amante mio, mentre io vissi, spiacevole ed ingrata.
D’altre infinite è questa grotta piena, poste per simil fallo in simil pena.
12
Sta la cruda Anassarete più al basso, ove è maggiore il fumo e più martire.
Restò converso al mondo il corpo in sasso e l’anima qua giù venne a patire,
poi che veder per lei l’afflitto e lasso suo amante appeso poté sofferire.
Qui presso è Dafne, ch’or s’avvede quanto errasse a fare Apollo correr tanto.
13
Lungo saria se gl’infelici spirti
de le femine ingrate, che qui stanno, volesse ad uno ad uno riferirti;
che tanti son, ch’in infinito vanno. Più lungo ancor saria gli uomini dirti,
a’ quai l’essere ingrato ha fatto danno, e che puniti sono in peggior loco,
ove il fumo gli accieca, e cuoce il fuoco.
14
Perché le donne più facili e prone
a creder son, di più supplicio è degno chi lor fa inganno. Il sa Teseo e Iasone e chi turbò a Latin l’antiquo regno;
sallo ch’incontra sé il frate Absalone per Tamar trasse a sanguinoso sdegno;
ed altri ed altre: che sono infiniti, che lasciato han chi moglie e chi mariti.
15
Ma per narrar di me più che d’altrui, e palesar l’error che qui mi trasse,
bella, ma altiera più, sì in vita fui, che non so s’altra mai mi s’aguagliasse: né ti saprei ben dir, di questi dui,
s’in me l’orgoglio o la beltà avanzasse; quantunque il fasto o l’alterezza nacque da la beltà ch’a tutti gli occhi piacque.
16
Era in quel tempo in Tracia un cavalliero estimato il miglior del mondo in arme,
il qual da più d’un testimonio vero di singular beltà sentì lodarme;
tal che spontaneamente fe’ pensiero di volere il suo amor tutto donarme,
stimando meritar per suo valore,
che caro aver di lui dovessi il core.
17
In Lidia venne; e d’un laccio più forte vinto restò, poi che veduta m’ebbe.
Con gli altri cavallier si messe in corte del padre mio, dove in gran fama crebbe. L’alto valore e le più d’una sorte
prodezze che mostrò, lungo sarebbe
a raccontarti, e il suo merto infinito, quando egli avesse a più grato uom servito.
18
Panfilia e Caria e il regno de’ Cilici per opra di costui mio padre vinse;
che l’esercito mai contra i nimici, se non quanto volea costui, non spinse.
Costui, poi che gli parve i benefici suoi meritarlo, un dì col re si strinse
a domandargli in premio de le spoglie tante arrecate, ch’io fossi sua moglie.
19
Fu repulso dal re, ch’in grande stato maritar disegnava la figliuola,
non a costui che cavallier privato
altro non tien che la virtude sola: e ‘l padre mio troppo al guadagno dato,
e all’avarizia, d’ogni vizio scuola, tanto apprezza costumi, o virtù ammira,
quanto l’asino fa il suon de la lira.
20
Alceste, il cavallier di ch’io ti parlo (che così nome avea), poi che si vede
repulso da chi più gratificarlo
era più debitor, commiato chiede;
e lo minaccia, nel partir, di farlo pentir che la figliuola non gli diede.
Se n’andò al re d’Armenia, emulo antico del re di Lidia e capital nimico;
21
e tanto stimulò, che lo dispose
a pigliar l’arme e far guerra a mio padre. Esso per l’opre sue chiare e famose
fu fatto capitan di quelle squadre. Pel re d’Armenia tutte l’altre cose
disse ch’acquisteria: sol le leggiadre e belle membra mie volea per frutto
de l’opra sua, vinto ch’avesse il tutto.
22
Io non ti potre’ esprimere il gran danno ch’Alceste al padre mio fa in quella guerra. Quattro eserciti rompe, e in men d’un anno lo mena a tal, che non gli lascia terra, fuor ch’un castel ch’alte pendici fanno
fortissimo; e là dentro il re si serra con la famiglia che più gli era accetta, e col tesor che trar vi puote in fretta.
23
Quivi assedionne Alceste; ed in non molto termine a tal disperazion ne trasse,
che per buon patto avria mio padre tolto che moglie e serva ancor me gli lasciasse con la metà del regno, s’indi assolto
restar d’ogni altro danno si sperasse. Vedersi in breve de l’avanzo privo
era ben certo, e poi morir captivo.
24
Tentar, prima ch’accada, si dispone ogni rimedio che possibil sia;
e me, che d’ogni male era cagione,
fuor de la rocca, ov’era Alceste invia. Io vo ad Alceste con intenzione
di dargli in preda la persona mia,
e pregar che la parte che vuol tolga del regno nostro, e l’ira in pace volga.
25
Come ode Alceste ch’io vo a ritrovarlo, mi viene incontra pallido e tremante:
di vinto e di prigione, a riguardarlo, più che di vincitore, have sembiante.
Io che conosco ch’arde, non gli parlo sì come avea già disegnato inante:
vista l’occasion, fo pensier nuovo
conveniente al grado in ch’io lo trovo.
26
A maledir comincio l’amor d’esso,
e di sua crudeltà troppo a dolermi, ch’iniquamente abbia mio padre oppresso, e che per forza abbia cercato avermi;
che con più grazia gli saria successo indi a non molti dì, se tener fermi
saputo avesse i modi cominciati,
ch’al re ed a tutti noi sì furon grati.
27
E se ben da principio il padre mio
gli avea negata la domanda onesta
(però che di natura è un poco rio,
né mai si piega alla prima richiesta), farsi per ciò di ben servir restio
non doveva egli, e aver l’ira sì presta; anzi, ognor meglio oprando, tener certo
venire in breve al desiato merto.
28
E quando anco mio padre a lui ritroso stato fosse, io l’avrei tanto pregato,
ch’avria l’amante mio fatto mio sposo. Pur, se veduto io l’avessi ostinato,
avrei fatto tal opra di nascoso,
che di me Alceste si saria lodato.
Ma poi ch’a lui tentar parve altro modo, io di mai non l’amar fisso avea il chiodo.
29
E se ben era a lui venuta, mossa
da la pietà ch’al mio padre portava, sia certo che non molto fruir possa
il piacer ch’al dispetto mio gli dava; ch’era per far di me la terra rossa,
tosto ch’io avessi alla sua voglia prava con questa mia persona satisfatto
di quel che tutto a forza saria fatto.
30
Queste parole e simili altre usai,
poi che potere in lui mi vidi tanto; e ‘l più pentito lo rendei, che mai
si trovasse ne l’eremo alcun santo. Mi cadde a’ piedi, e supplicommi assai,
che col coltel che si levò da canto (e volea in ogni modo ch’io ‘l pigliassi) di tanto fallo suo mi vendicassi.
31
Poi ch’io lo trovo tale, io fo disegno la gran vittoria insin al fin seguire:
gli do speranza di farlo anco degno che la persona mia potrà fruire,
s’emendando il suo error, l’antiquo regno al padre mio farà restituire;
e nel tempo a venir vorrà acquistarme servendo, amando, e non mai più per arme.
32
Così far mi promesse, e ne la rocca intatta mi mandò, come a lui venni,
né di baciarmi pur s’ardì la bocca: vedi s’al collo il giogo ben gli tenni;
vedi se bene Amor per me lo tocca,
se convien che per lui più strali impenni. Al re d’Armenia andò, di cui dovea
esser per patto ciò che si prendea:
33
e con quel miglior modo ch’usar puote, lo priega ch’al mio padre il regno lassi, del qual le terre ha depredate e vote,
ed a goder l’antiqua Armenia passi. Quel re, d’ira infiammando ambe le gote, disse ad Alceste che non vi pensassi;
che non si volea tor da quella guerra, fin che mio padre avea palmo di terra.
34
E s’Alceste è mutato alle parole
d’una vil feminella, abbiasi il danno. Già a’ prieghi esso di lui perder non vuole quel ch’a fatica ha preso in tutto un anno. Di nuovo Alceste il priega, e poi si duole che seco effetto i prieghi suoi non fanno. All’ultimo s’adira, e lo minaccia
che vuol, per forza o per amor, lo faccia.
35
L’ira multiplicò sì, che li spinse
da le male parole ai peggior fatti. Alceste contra il re la spada strinse
fra mille ch’in suo aiuto s’eran tratti, e mal grado lor tutti, ivi l’estinse;
e quel dì ancor gli Armeni ebbe disfatti, con l’aiuto de’ Cilici e de’ Traci
che pagava egli, e d’altri suoi seguaci.
36
Seguitò la vittoria, ed a sue spese, senza dispendio alcun del padre mio,
ne rendé tutto il regno in men d’un mese. Poi per ricompensarne il danno rio,
oltr’alle spoglie che ne diede, prese in parte, e gravò in parte di gran fio
Armenia e Capadocia che confina,
e scorse Ircania fin su la marina.
37
In luogo di trionfo, al suo ritorno, facemmo noi pensier dargli la morte.
Restammo poi, per non ricever scorno; che lo veggiàn troppo d’amici forte.
Fingo d’amarlo, e più di giorno in giorno gli do speranza d’essergli consorte;
ma prima contra altri nimici nostri dico voler che sua virtù dimostri.
38
E quando sol, quando con poca gente lo mando a strane imprese e perigliose,
da farne morir mille agevolmente:
ma lui successer ben tutte le cose; che tornò con vittoria, e fu sovente
con orribil persone e mostruose,
con Griganti a battaglia e Lestrigoni, ch’erano infesti a nostre regioni.
39
Non fu da Euristeo mai, non fu mai tanto da la matrigna esercitato Alcide
in Lerna, in Nemea, in Tracia, in Erimanto, alle valli d’Etolia, alle Numide,
sul Tevre, su l’Ibero e altrove; quanto con prieghi finti e con voglie omicide
esercitato fu da me il mio amante,
cercando io pur di torlomi davante.
40
Né potendo venire al primo intento, vengone ad un di non minore effetto:
gli fo quei tutti ingiuriar, ch’io sento che per lui sono, e a tutti in odio il metto. Egli che non sentia maggior contento
che d’ubbidirmi, senza alcun rispetto le mani ai cenni miei sempre avea pronte, senza guardare un più d’un altro in fronte.
41
Poi che mi fu, per questo mezzo, aviso spento aver del mio padre ogni nimico,
e per lui stesso Alceste aver conquiso, che non si avea, per noi, lasciato amico; quel ch’io gli avea con simulato viso
celato fin allor, chiaro gli esplico: che grave e capitale odio gli porto,
e pur tuttavia cerco che sia morto.
42
Considerando poi, s’io lo facessi,
ch’in publica ignominia ne verrei
(sapeasi troppo quanto io gli dovessi, e crudel detta sempre ne sarei),
mi parve fare assai ch’io gli togliessi di mai venir più inanzi agli occhi miei. Né veder né parlar mai più gli volsi,
né messo udi’, né lettera ne tolsi.
43
Questa mia ingratitudine gli diede
tanto martìr, ch’al fin dal dolor vinto, e dopo un lungo domandar mercede,
infermo cadde, e ne rimase estinto. Per pena ch’al fallir mio si richiede,
or gli occhi ho lacrimosi, e il viso tinto del negro fumo: e così avrò in eterno;
che nulla redenzione è ne l’inferno. –
44
Poi che non parla più Lidia infelice, va il duca per saper s’altri vi stanzi:
ma la caligine alta ch’era ultrice
de l’opre ingrate, si gl’ingrossa inanzi, ch’andare un palmo sol più non gli lice; anzi a forza tornar gli conviene, anzi,
perché la vita non gli sia intercetta dal fumo, i passi accelerar con fretta.
45
Il mutar spesso de le piante ha vista di corso, e non di chi passeggia o trotta. Tanto, salendo inverso l’erta, acquista, che vede dove aperta era la grotta;
e l’aria, già caliginosa e trista,
dal lume cominciava ad esser rotta. Al fin con molto affanno e grave ambascia esce de l’antro, e dietro il fumo lascia.
46
E perché del tornar la via sia tronca a quelle bestie c’han sì ingorde l’epe,
raguna sassi, e molti arbori tronca, che v’eran qual d’amomo e qual di pepe;
e come può, dinanzi alla spelonca
fabrica di sua man quasi una siepe: e gli succede così ben quell’opra,
che più l’arpie non torneran di sopra.
47
Il negro fumo de la scura pece,
mentre egli fu ne la caverna tetra, non macchiò sol quel ch’apparia, ed infece, ma sotto i panni ancora entra e penètra; sì che per trovare acqua andar lo fece
cercando un pezzo; e al fin fuor d’una pietra vide una fonte uscir ne la foresta,
ne la qual si lavò dal piè alla testa.
48
Poi monta il volatore, e in aria s’alza per giunger di quel monte in su la cima, che non lontan con la superna balza
dal cerchio de la luna esser si stima. Tanto è il desir che di veder lo ‘ncalza, ch’al cielo aspira, e la terra non stima. De l’aria più e più sempre guadagna,
tanto ch’al giogo va de la montagna.
49
Zafir, rubini, oro, topazi e perle, e diamanti e crisoliti e iacinti
potriano i fiori assimigliar, che per le liete piaggie v’avea l’aura dipinti:
sì verdi l’erbe, che possendo averle qua giù, ne fôran gli smeraldi vinti;
né men belle degli arbori le frondi, e di frutti e di fior sempre fecondi.
50
Cantan fra i rami gli augelletti vaghi azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli. Murmuranti ruscelli e cheti laghi
di limpidezza vincono i cristalli.
Una dolce aura che ti par che vaghi a un modo sempre e dal suo stil non falli, facea sì l’aria tremolar d’intorno,
che non potea noiar calor del giorno:
51
e quella ai fiori, ai pomi e alla verzura gli odor diversi depredando giva,
e di tutti faceva una mistura
che di soavità l’alma notriva.
Surgea un palazzo in mezzo alla pianura, ch’acceso esser parea di fiamma viva:
tanto splendore intorno e tanto lume raggiava, fuor d’ogni mortal costume.
52
Astolfo il suo destrier verso il palagio che più di trenta miglia intorno aggira, a passo lento fa muovere ad agio,
e quinci e quindi il bel paese ammira; e giudica, appo quel, brutto e malvagio, e che sia al ciel ed a natura in ira
questo ch’abitian noi fetido mondo: tanto è soave quel, chiaro e giocondo.
53
Come egli è presso al luminoso tetto, attonito riman di maraviglia;
che tutto d’una gemma è ‘l muro schietto, più che carbonchio lucida e vermiglia.
O stupenda opra, o dedalo architetto! Qual fabrica tra noi le rassimiglia?
Taccia qualunque le mirabil sette
moli del mondo in tanta gloria mette.
54
Nel lucente vestibulo di quella
felice casa un vecchio al duca occorre, che ‘l manto ha rosso, e bianca la gonnella, che l’un può al latte, e l’altro al minio opporre. I crini ha bianchi, e bianca la mascella di folta barba ch’al petto discorre;
ed è sì venerabile nel viso,
ch’un degli eletti par del paradiso.
55
Costui con lieta faccia al paladino, che riverente era d’arcion disceso,
disse: – O baron, che per voler divino sei nel terrestre paradiso asceso;
come che né la causa del camino,
né il fin del tuo desir da te sia inteso; pur credi che non senza alto misterio
venuto sei da l’artico emisperio.
56
Per imparar come soccorrer déi
Carlo, e la santa fé tor di periglio venuto meco a consigliar ti sei
per così lunga via, senza consiglio. Né a tuo saper, né a tua virtù vorrei
ch’esser qui giunto attribuissi, o figlio; che né il tuo corno, né il cavallo alato ti valea, se da Dio non t’era dato.
57
Ragionerem più ad agio insieme poi, e ti dirò come a procedere hai:
ma prima vienti a ricrear con noi;
che ‘l digiun lungo de’ noiarti ormai. – Continuando il vecchio i detti suoi,
fece meravigliare il duca assai,
quando scoprendo il nome suo, gli disse esser colui che l’evangelio scrisse:
58
quel tanto al Redentor caro Giovanni, per cui il sermone tra i fratelli uscìo, che non dovea per morte finir gli anni;
sì che fu causa che ‘l figliuol di Dio a Pietro disse: – Perché pur t’affanni,
s’io vo’ che così aspetti il venir mio? – Ben che non disse: egli non de’ morire,
si vede pur che così volse dire.
59
Quivi fu assunto, e trovò compagnia, che prima Enoch, il patriarca, v’era;
eravi insieme il gran profeta Elia, che non han vista ancor l’ultima sera;
e fuor de l’aria pestilente e ria
si goderan l’eterna primavera,
fin che dian segno l’angeliche tube, che torni Cristo in su la bianca nube.
60
Con accoglienza grata il cavalliero fu dai santi alloggiato in una stanza;
fu provisto in un’altra al suo destriero di buona biada, che gli fu a bastanza.
De’ frutti a lui del paradiso diero, di tal sapor, ch’a suo giudicio, sanza
scusa non sono i duo primi parenti, se per quei fur sì poco ubbidienti.
61
Poi ch’a natura il duca aventuroso
satisfece di quel che se le debbe,
come col cibo, così col riposo,
che tutti e tutti i commodi quivi ebbe; lasciando già l’Aurora il vecchio sposo, ch’ancor per lunga età mai non l’increbbe, si vide incontra ne l’uscir del letto
il discipul da Dio tanto diletto;
62
che lo prese per mano, e seco scorse di molte cose di silenzio degne:
e poi disse: – Figliuol, tu non sai forse che in Francia accada, ancor che tu ne vegne. Sappi che ‘l vostro Orlando, perché torse dal camin dritto le commesse insegne,
è punito da Dio, che più s’accende
contra chi egli ama più, quando s’offende.
63
Il vostro Orlando, a cui nascendo diede somma possanza Dio con sommo ardire,
e fuor de l’uman uso gli concede
che ferro alcun non lo può mai ferire; perché a difesa di sua santa fede
così voluto l’ha costituire,
come Sansone incontra a’ Filistei
costituì a difesa degli Ebrei:
64
renduto ha il vostro Orlando al suo Signore di tanti benefici iniquo merto;
che quanto aver più lo dovea in favore, n’è stato il fedel popul più deserto.
Sì accecato l’avea l’incesto amore
d’una pagana, ch’avea già sofferto
due volte e più venire empio e crudele, per dar la morte al suo cugin fedele.
65
E Dio per questo fa ch’egli va folle, e mostra nudo il ventre, il petto e il fianco; e l’intelletto sì gli offusca e tolle,
che non può altrui conoscere, e sé manco. A questa guisa si legge che volle
Nabuccodonosor Dio punir anco,
che sette anni il mandò il furor pieno, sì che, qual bue, pasceva l’erba e il fieno.
66
Ma perch’assai minor del paladino,
che di Nabucco, è stato pur l’eccesso, sol di tre mesi dal voler divino
a purgar questo error termine è messo. Né ad altro effetto per tanto camino
salir qua su t’ha il Redentor concesso, se non perché da noi modo tu apprenda,
come ad Orlando il suo senno si renda.
67
Gli è ver che ti bisogna altro viaggio far meco, e tutta abbandonar la terra.
Nel cerchio de la luna a menar t’aggio, che dei pianeti a noi più prossima erra, perché la medicina che può saggio
rendere Orlando, là dentro si serra. Come la luna questa notte sia
sopra noi giunta, ci porremo in via. –
68
Di questo e d’altre cose fu diffuso il parlar de l’apostolo quel giorno.
Ma poi che ‘l sol s’ebbe nel mar rinchiuso, e sopra lor levò la luna il corno,
un carro apparecchiòsi, ch’era ad uso d’andar scorrendo per quei cieli intorno: quel già ne le montagne di Giudea
da’ mortali occhi Elia levato avea.
69
Quattro destrier via più che fiamma rossi al giogo il santo evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse. Ruotando il carro, per l’aria levossi,
e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse; che ‘l vecchio fe’ miracolosamente,
che, mentre lo passar, non era ardente.
70
Tutta la sfera varcano del fuoco,
ed indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco come un acciar che non ha macchia alcuna; e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch’in questo globo si raguna, in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.
71
Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia: che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia, s’indi la terra e ‘l mar ch’intorno spande, discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.
72
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne, c’han le cittadi, hanno i castelli suoi, con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
73
Non stette il duca a ricercar il tutto; che là non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto, ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto, o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
74
Non pur di regni o di ricchezze parlo, in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo, il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno, che da noi peccatori a Dio si fanno.
75
Le lacrime e i sospiri degli amanti, l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco: ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.
76
Passando il paladin per quelle biche, or di questo or di quel chiede alla guida. Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida; e seppe ch’eran le corone antiche
e degli Assiri e de la terra lida,
e de’ Persi e de’ Greci, che già furo incliti, ed or n’è quasi il nome oscuro.
77
Ami d’oro e d’argento appresso vede in una massa, ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni. Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede, ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si fanno.
78
Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
vede c’han forma i mal seguiti amori. V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi, l’autorità ch’ai suoi danno i signori.
I mantici ch’intorno han pieni i greppi, sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi, che se ne van col fior degli anni poi.
79
Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra. Domanda, e sa che son trattati, e quella congiura che sì mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l’opra:
poi vide bocce rotte di più sorti,
ch’era il servir de le misere corti.
80
Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch’importe. – L’elemosina è (dice) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. – Di vari fiori ad un gran monte passa,
ch’ebbe già buono odore, or putia forte. Questo era il dono (se però dir lece)
che Costantino al buon Silvestro fece.
81
Vide gran copia di panie con visco, ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco, e vi son tutte l’occurrenze nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai; che sta qua giù, né se ne parte mai.
82
Quivi ad alcuni giorni e fatti sui, ch’egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse. Poi giunse a quel che par sì averlo a nui, che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n’era quivi un monte, solo assai più che l’altre cose conte.
83
Era come un liquor suttile e molle, atto a esalar, se non si tien ben chiuso; e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell’uso. Quella è maggior di tutte, in che del folle signor d’Anglante era il gran senno infuso; e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.
84
E così tutte l’altre avean scritto anco il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco; ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch’egli credea che dramma manco non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n’era in quel loco.
85
Altri in amar lo perde, altri in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze; altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze; altri in gemme, altri in opre di pittori, ed altri in altro che più d’altro aprezze. Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.
86
Astolfo tolse il suo; che gliel concesse lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
L’ampolla in ch’era al naso sol si messe, e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma ch’uno error che fece poi, fu quello ch’un’altra volta gli levò il cervello.
87
La più capace e piena ampolla, ov’era il senno che solea far savio il conte,
Astolfo tolle; e non è sì leggiera, come stimò, con l’altre essendo a monte. Prima che ‘l paladin da quella sfera
piena di luce alle più basse smonte, menato fu da l’apostolo santo
in un palagio ov’era un fiume a canto;
88
ch’ogni sua stanza avea piena di velli di lin, di seta, di coton, di lana,
tinti in vari colori e brutti e belli. Nel primo chiostro una femina cana
fila a un aspo traea da tutti quelli, come veggiàn l’estate la villana
traer dai bachi le bagnate spoglie, quando la nuova seta si raccoglie.
89
V’è chi, finito un vello, rimettendo ne viene un altro, e chi ne porta altronde: un’altra de le filze va scegliendo
il bel dal brutto che quella confonde. – Che lavor si fa qui, ch’io non l’intendo? – dice a Giovanni Astolfo; e quel risponde: – Le vecchie son le Parche, che con tali stami filano vite a voi mortali.
90
Quanto dura un de’ velli, tanto dura l’umana vita, e non di più un momento.
Qui tien l’occhio e la Morte e la Natura, per saper l’ora ch’un debba esser spento. Sceglier le belle fila ha l’altra cura,
perché si tesson poi per ornamento
del paradiso; e dei più brutti stami si fan per li dannati aspri legami. –
91
Di tutti i velli ch’erano già messi in aspo, e scelti a farne altro lavoro,
erano in brevi piastre i nomi impressi, altri di ferro, altri d’argento o d’oro: e poi fatti n’avean cumuli spessi,
de’ quali, senza mai farvi ristoro, portarne via non si vedea mai stanco
un vecchio, e ritornar sempre per anco.
92
Era quel vecchio sì espedito e snello, che per correr parea che fosse nato;
e da quel monte il lembo del mantello portava pien del nome altrui segnato.
Ove n’andava, e perché facea quello, ne l’altro canto vi sarà narrato,
se d’averne piacer segno farete
con quella grata udienza che solete.
CANTO TRENTACINQUESIMO
1
Chi salirà per me, madonna, in cielo a riportarne il mio perduto ingegno?
che, poi ch’uscì da’ bei vostri occhi il telo che ‘l cor mi fisse, ognor perdendo vegno. Né di tanta iattura mi querelo,
pur che non cresca, ma stia a questo segno; ch’io dubito, se più si va scemando,
di venir tal, qual ho descritto Orlando.
2
Per riaver l’ingegno mio m’è aviso
che non bisogna che per l’aria io poggi nel cerchio de la luna o in paradiso;
che ‘l mio non credo che tanto alto alloggi. Ne’ bei vostri occhi e nel sereno viso,
nel sen d’avorio e alabastrini poggi se ne va errando; ed io con queste labbia lo corrò, se vi par ch’io lo riabbia.
3
Per gli ampli tetti andava il paladino tutte mirando le future vite,
poi ch’ebbe visto sul fatal molino
volgersi quelle ch’erano già ordite: e scorse un vello che più che d’or fino
splender parea; né sarian gemme trite, s’in filo si tirassero con arte,
da comparargli alla millesma parte.
4
Mirabilmente il bel vello gli piacque, che tra infiniti paragon non ebbe;
e di sapere alto disio gli nacque,
quando sarà tal vita, e a chi si debbe. L’evangelista nulla gliene tacque:
che venti anni principio prima avrebbe che col .M. e col .D. fosse notato
l’anno corrente dal Verbo incarnato,
5
E come di splendore e di beltade
quel vello non avea simile o pare,
così saria la fortunata etade
che dovea uscirne al mondo singulare; perché tutte le grazie inclite e rade
ch’alma Natura, o proprio studio dare, o benigna Fortuna ad uomo puote,
avrà in perpetua ed infallibil dote.
6
– Del re de’ fiumi tra l’altiere corna or siede umil (diceagli) e piccol borgo: dinanzi il Po, di dietro gli soggiorna
d’alta palude un nebuloso gorgo;
che, volgendosi gli anni, la più adorna di tutte le città d’Italia scorgo,
non pur di mura e d’ampli tetti regi, ma di bei studi e di costumi egregi.
7
Tanta esaltazione e così presta,
non fortuìta o d’aventura casca;
ma l’ha ordinata il ciel, perché sia questa degna in che l’uom di ch’io ti parlo, nasca: che, dove il frutto ha da venir, s’inesta e con studio si fa crescer la frasca;
e l’artefice l’oro affinar suole,
in che legar gemma di pregio vuole.
8
Né sì leggiadra né sì bella veste
unque ebbe altr’alma in quel terrestre regno; e raro è sceso e scenderà da queste
sfere superne un spirito sì degno,
come per farne Ippolito da Este
n’have l’eterna mente alto disegno. Ippolito da Este sarà detto
l’uom a chi Dio sì ricco dono ha eletto.
9
Quegli ornamenti che divisi in molti, a molti basterian per tutti ornarli,
in suo ornamento avrà tutti raccolti costui, di c’hai voluto ch’io ti parli.
Le virtudi per lui, per lui soffolti saran gli studi; e s’io vorrò narrar li
alti suoi merti, al fin son sì lontano, ch’Orlando il senno aspetterebbe invano. –
10
Così venìa l’imitator di Cristo
ragionando col duca: e poi che tutte le stanze del gran luogo ebbono visto,
onde l’umane vite eran condutte,
sul fiume usciro, che d’arena misto con l’onde discorrea turbide e brutte;
e vi trovar quel vecchio in su la riva, che con gl’impressi nomi vi veniva.
11
Non so se vi sia a mente, io dico quello ch’al fin de l’altro canto vi lasciai,
vecchio di faccia, e sì di membra snello, che d’ogni cervio è più veloce assai.
Degli altrui nomi egli si empìa il mantello; scemava il monte, e non finiva mai:
ed in quel fiume che Lete si noma,
scarcava, anzi perdea la ricca soma.
12
Dico che, come arriva in su la sponda del fiume, quel prodigo vecchio scuote
il lembo pieno, e ne la turbida onda tutte lascia cader l’impresse note.
Un numer senza fin se ne profonda,
ch’un minimo uso aver non se ne puote; e di cento migliaia che l’arena
sul fondo involve, un se ne serva a pena.
13
Lungo e d’intorno quel fiume volando givano corvi ed avidi avoltori,
mulacchie e vari augelli, che gridando facean discordi strepiti e romori;
ed alla preda correan tutti, quando sparger vedean gli amplissimi tesori:
e chi nel becco, e chi ne l’ugna torta ne prende; ma lontan poco li porta.
14
Come vogliono alzar per l’aria i voli, non han poi forza che ‘l peso sostegna;
sì che convien che Lete pur involi
de’ ricchi nomi la memoria degna.
Fra tanti augelli son duo cigni soli, bianchi, Signor, come è la vostra insegna, che vengon lieti riportando in bocca
sicuramente il nome che lor tocca.
15
Così contra i pensieri empi e maligni del vecchio che donar li vorria al fiume, alcuno ne salvan gli augelli benigni:
tutto l’avanzo oblivion consume.
Or se ne van notando i sacri cigni, ed or per l’aria battendo le piume,
fin che presso alla ripa del fiume empio trovano un colle, e sopra il colle un tempio.
16
All’Inmmortalitade il luogo è sacro, ove una bella ninfa giù del colle
viene alla ripa del leteo lavacro,
e di bocca dei cigni i nomi tolle;
e quelli affige intorno al simulacro ch’in mezzo il tempio una colonna estolle, quivi li sacra, e ne fa tal governo,
che vi si pôn veder tutti in eterno.
17
Chi sia quel vecchio, e perché tutti al rio senza alcun frutto i bei nomi dispensi,
e degli augelli, e di quel luogo pio onde la bella ninfa al fiume viensi,
aveva Astolfo di saper desio
i gran misteri e gl’incogniti sensi; e domandò di tutte queste cose
l’uomo di Dio, che così gli rispose:
18
– Tu déi saper che non si muove fronda là giù che segno qui non se ne faccia.
Ogni effetto convien che corrisponda in terra e in ciel, ma con diversa faccia. Quel vecchio, la cui barba il petto inonda, veloce sì che mai nulla l’impaccia,
gli effetti pari e la medesima opra che ‘l Tempo fa là giù, fa qui di sopra.
19
Volte che son le fila in su la ruota, là giù la vita umana arriva al fine.
La fama là, qui ne riman la nota;
ch’immortali sariano ambe e divine, se non che qui quel da la irsuta gota,
e là giù il Tempo ognor ne fa rapine. Questi le getta, come vedi, al rio;
e quel l’immerge ne l’eterno oblio.
20
E come qua su i corvi e gli avoltori e le mulacchie e gli altri varii augelli s’affaticano tutti per trar fuori
de l’acqua i nomi che veggion più belli: così là giù ruffiani, adulatori,
buffon, cinedi, accusatori, e quelli che viveno alle corti e che vi sono
più grati assai che ‘l virtuoso e ‘l buono,
21
e son chiamati cortigian gentili,
perché sanno imitar l’asino e ‘l ciacco; de’ lor signor, tratto che n’abbia i fili la giusta Parca, anzi Venere e Bacco,
questi di ch’io ti dico, inerti e vili, nati solo ad empir di cibo il sacco,
portano in bocca qualche giorno il nome; poi ne l’oblio lascian cader le some.
22
Ma come i cigni che cantando lieti
rendeno salve le medaglie al tempio, così gli uomini degni da’ poeti
son tolti da l’oblio, più che morte empio. Oh bene accorti principi e discreti,
che seguite di Cesare l’esempio,
e gli scrittor vi fate amici, donde non avete a temer di Lete l’onde!
23
Son, come i cigni, anco i poeti rari, poeti che non sian del nome indegni;
sì perché il ciel degli uomini preclari non pate mai che troppa copia regni,
sì per gran colpa dei signori avari che lascian mendicare i sacri ingegni;
che le virtù premendo, ed esaltando i vizi, caccian le buone arti in bando.
24
Credi che Dio questi ignoranti ha privi de lo ‘ntelletto, e loro offusca i lumi; che de la poesia gli ha fatto schivi,
acciò che morte il tutto ne consumi. Oltre che del sepolcro uscirian vivi,
ancor ch’avesser tutti i rei costumi, pur che sapesson farsi amica Cirra,
più grato odore avrian che nardo o mirra.
25
Non sì pietoso Enea, né forte Achille fu, come è fama, né sì fiero Ettorre;
e ne son stati e mille a mille e mille che lor si puon con verità anteporre:
ma i donati palazzi e le gran ville dai descendenti lor, gli ha fatto porre
in questi senza fin sublimi onori
da l’onorate man degli scrittori.
26
Non fu sì santo né benigno Augusto
come la tuba di Virgilio suona.
L’aver avuto in poesia buon gusto
la proscrizion iniqua gli perdona.
Nessun sapria se Neron fosse ingiusto, né sua fama saria forse men buona,
avesse avuto e terra e ciel nimici, se gli scrittor sapea tenersi amici.
27
Omero Agamennòn vittorioso,
e fe’ i Troian parer vili ed inerti; e che Penelopea fida al suo sposo
dai Prochi mille oltraggi avea sofferti. E se tu vuoi che ‘l ver non ti sia ascoso, tutta al contrario l’istoria converti:
che i Greci rotti, e che Troia vittrice, e che Penelopea fu meretrice.
28
Da l’altra parte odi che fama lascia Elissa, ch’ebbe il cor tanto pudico;
che riputata viene una bagascia,
solo perché Maron non le fu amico.
Non ti maravigliar ch’io n’abbia ambascia, e se di ciò diffusamente io dico.
Gli scrittori amo, e fo il debito mio; ch’al vostro mondo fui scrittore anch’io.
29
E sopra tutti gli altri io feci acquisto che non mi può levar tempo né morte:
e ben convenne al mio lodato Cristo rendermi guidardon di sì gran sorte.
Duolmi di quei che sono al tempo tristo, quando la cortesia chiuso ha le porte;
che con pallido viso e macro e asciutto la notte e ‘l dì vi picchian senza frutto.
30
Sì che continuando il primo detto,
sono i poeti e gli studiosi pochi;
che dove non han pasco né ricetto,
insin le fere abbandonano i lochi. – Così dicendo il vecchio benedetto
gli occhi infiammò, che parveno duo fuochi; poi volto al duca con un saggio riso
tornò sereno il conturbato viso.
31
Resti con lo scrittor de l’evangelo Astolfo ormai, ch’io voglio far un salto, quanto sia in terra a venir fin dal cielo; ch’io non posso più star su l’ali in alto. Torno alla donna a cui con grave telo
mosso avea gelosia crudele assalto. Io la lasciai ch’avea con breve guerra
tre re gittati, un dopo l’altro, in terra;
32
e che giunta la sera ad un castello ch’alla via di Parigi si ritrova,
d’Agramante, che rotto dal fratello s’era ridotto in Arli, ebbe la nuova.
Certa che ‘l suo Ruggier fosse con quello, tosto ch’apparve in ciel la luce nuova,
verso Provenza, dove ancora intese
che Carlo lo seguia, la strada prese.
33
Verso Provenza per la via più dritta andando, s’incontrò in una donzella,
ancor che fosse lacrimosa e afflitta, bella di faccia e di maniere bella.
Questa era quella sì d’amor traffitta per lo figliuol di Monodante, quella
donna gentil ch’avea lasciato al ponte l’amante suo prigion di Rodomonte.
34
Ella venìa cercando un cavalliero,
ch’a far battaglia usato, come lontra, in acqua e in terra fosse, e così fiero, che lo potesse al pagan porre incontra.
La sconsolata amica di Ruggiero,
come quest’altra sconsolata incontra, cortesemente la saluta, e poi
le chiede la cagion dei dolor suoi.
35
Fiordiligi lei mira, e veder parle
un cavallier ch’al suo bisogno fia; e comincia del ponte a ricontarle,
ove impedisce il re d’Algier la via; e ch’era stato appresso di levarle
l’amante suo: non che più forte sia; ma sapea darsi il Saracino astuto
col ponte stretto e con quel fiume aiuto.
36
– Se sei (dicea) sì ardito e sì cortese, come ben mostri l’uno e l’altro in vista, mi vendica, per Dio, di chi mi prese
il mio signore, e mi fa gir sì trista; o consigliami almeno in che paese
possa io trovare un ch’a colui resista, e sappia tanto d’arme e di battaglia,
che ‘l fiume e ‘l ponte al pagan poco vaglia.
37
Oltre che tu farai quel che conviensi ad uom cortese e a cavalliero errante,
in beneficio il tuo valor dispensi
del più fedel d’ogni fedele amante. De l’altre sue virtù non appertiensi
a me narrar; che sono tante e tante, che chi non n’ha notizia, si può dire